C’è stata un’Italia in cui Federico Fellini e Luchino Visconti erano due mondi. Non si parlavano. Né i mondi né loro. Intorno avevano un Paese nel quale potevano odiarsi usando un registro leggendario, come Sparta e Atene, oppure con qualche risvolto grottesco, alla Totò contro Maciste. Si sono sfiorati, ignorati, incrociati, mai quanto nel 1963, l’anno in cui sono sul set contemporaneamente, uno fa 8 e 1/2 e l’altro gira Il Gattopardo. Hanno in comune un’attrice, Claudia Cardinale, che si divide tra un lavoro e l’altro, costretta da quella incomunicabilità a cambiare colore dei capelli ogni volta che si sposta. Le verrà la famosa ruga sulla fronte, perché Visconti le chiede di dire una cosa con gli occhi e il suo contrario col sorriso.
Di tutto questo ha scritto in La Bella Confusione [Einaudi] Francesco Piccolo, premio Strega nove anni fa con Il desiderio di essere come tutti, tre David e quattro Nastri da sceneggiatore per film di Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Paolo Virzì. Lui la chiama “l’euforia di scrivere”, questo ripetuto dividersi tra un lavoro in solitudine e un’opera collettiva. La Bella Confusione è il titolo che Flaiano suggerì a Fellini per il suo film, ed è il romanzo di un’epoca, nel quale Piccolo fa sfilare le battaglie ideologiche, le ingerenze del PCI, “ma anche le piccolezze, le meschinerie, le fragilità, il fatto che questi film sono stati realizzati in maniera rocambolesca e potevano saltare”.
Dov’è finita quell’Italia che lei racconta come epica, dal confronto duro?
Sono andate perdute alcune cose positive, altre negative. Oggi possiamo parlare di Fellini e Visconti con molta chiarezza, ma farlo in quegli anni era contraddittorio. Erano grandi, e anche no. Come accade tra contemporanei. Se un elemento ci manca davvero è quel sistema di vita, nel quale Moravia poteva stroncare un film di Pasolini sull’Espresso scrivendo: come ho detto ieri sera all’autore in trattoria. Un mondo di totale sincerità, anche brutale, che oggi si fa fatica a vedere. Per capire se qualcosa è piaciuta o no, devi indagare tra le pieghe del linguaggio, tra “ci sono parti belle” e “l’ho trovato interessante”. Un linguaggio che ammorbidisce il conflitto artistico, come se toccasse in modo personale. A quel tempo finiva che non si parlassero per una settimana, ma dopo riprendevano, e intanto avevi capito se un film era più o meno riuscito.
Non ci sono più le stroncature di una volta?
Quando qualcuno dice di rimpiangere le stroncature, in realtà ne desidera la loro perversione. Il casino. L’attenzione. Esistono tuttora rare persone che delle stroncature hanno fatto un mito. Ma io parlo d’altro, di amici che non si dicono più in sincerità le cose come stanno. Allo stesso modo manca la generosità, qualcuno che dinanzi a un’opera usi la parola capolavoro, come Natalia Ginzburg per La Storia di Elsa Morante.
Quando si apre questa aridità del vero?
Credo con la fine delle ideologie, negli anni 80, la fine di un mondo che aveva delle nettezze. Quando iniziano le sfumature politiche, cominciano anche quelle culturali. In una generazione diversa di registi e scrittori, comincia a radicarsi un’idea di permalosità pervasiva. Se ci pensi, basta vedere cosa accade nel PCI che si trasforma. Da Occhetto in poi, tutti i segretari sono stati suscettibili. I giornali che ne dicevano male, diventavano nemici per sempre. La capacità di sopportare la critica è svanita insieme ai blocchi di cattolici, comunisti, ex comunisti. Forse ci siamo sentiti più soli, più fragili, c’è stata una paura che si è trasformata in molto altro, compresa la necessità di avere successo, vendere copie, incassare. Quando hai paura di non fare il prossimo film, diventi diplomatico, sia nel giudizio verso gli altri sia in maniera spaventosa addirittura verso te stesso. Non fai più 8 e 1/2 ma qualcosa che non ti rovini. Non devi esagerare. “È troppo” è una delle frasi del nostro tempo.
Le ingerenze del PCI di cui parla sono il prodotto della famosa egemonia culturale?
L’egemonia era variegata. Non esisteva solo quella un po’ ottusa del partito. Il condizionamento veniva anche da parte di persone libere come Vittorini, Sciascia, Moravia, intellettuali che avevano messo una distanza fra sé stessi e il PCI, ma che contribuivano a creare una cultura settaria. Dovevi stare da una parte o dall’altra. I più feroci con Il Gattopardo furono Sciascia e Moravia: fu lui a definirlo un romanzo di destra. Il condizionamento culturale apparteneva a tutto un mondo, ed è un bene che ce ne siamo liberati.
Lei nel libro se ne dice vergognato.
Al Gattopardo viene rimproverato di non raccontare il riscatto, La Storia subisce un trattamento finanche peggiore per la sua rappresentazione del proletariato. Oggi appare all’orizzonte un altro tipo di egemonia, quella della cancel culture, e di nuovo le categorie non sono più estetiche, il bello o il nuovo. Quando si giudica un’opera in base alla dose di inciviltà che contiene, è la fine. Il giusto non accende niente, ci fa rimanere uguali. L’unico senso è scrivere di cose sbagliate, fare opere che scuotano.
Perché la politica ha smesso di interferire?
Perché un libro e un film non hanno più il valore di prima. Né per la società né per un governo, che un tempo agiva dietro le quinte per non far vincere Senso alla Mostra di Venezia. Se quella ci sembra un’età dell’oro è perché i film erano al centro dell’interesse, dell’interesse popolare, dico. La gente andava a vedere La Dolce Vita e Rocco e i suoi fratelli come adesso si guardano la fiction su Rai1 o la semifinale di Champions. Si occupavano di Fellini e Visconti i giornali di gossip, oggi è inimmaginabile. Eppure un’epica resiste, rimarrebbe raccontabile la rivalità tra due scrittori in conflitto, due opere in ballo allo Strega per un voto. Non sto dicendo che abbiamo tra noi un Gattopardo e un 8 e 1/2. Dico che potremmo averli e non considerarli grandi, come accadeva ai loro contemporanei.
Lei racconta che questa storia sarebbe potuta diventare una serie tv. Lo pensa ancora?
Ero indeciso, ma da tempo scrivo libri di autofiction, nei quali si muove un personaggio che si chiama come me. Faccio il racconto del raccontare. Una serie tv mi pareva estranea a questo cammino, meno affascinante, invece la storia mi interessava molto, era dentro la testa dal 2014, quando feci Sanremo come autore. Claudia Cardinale era ospite, fumammo una sigaretta insieme, mi raccontò la storia dei capelli e altro. Ho capito che potevo scriverne non come un saggio, ma dal punto di vista del Francesco d’allora, un giovane di Caserta appassionato di libri e di cinema. Al presente storico. Per conservare lo stupore di fronte a certe coincidenze.
Ci sono attrici e attori italiani che potrebbero interpretare Fellini, Visconti, Cardinale?
Assolutamente sì. I dubbi vengono dai pregiudizi. Quando abbiamo visto la versione francese di Call My Agent, abbiamo creduto che fosse possibile solo là, in uno star system diverso. Poi si fa in Italia, e ci accorgiamo che quel mondo esiste anche da noi, che si può raccontare. Protagonisti ne abbiamo e sono dei personaggi. Si può osare. Viviamo la sensazione molto provinciale di essere piccoli rispetto a un’attrice francese. Invece Paola Cortellesi entra in scena e dimostra che si può.
A proposito di fantacinema. Lei racconta che Silvana Mangano poteva essere Gelsomina in La Strada. Che film avremmo visto?
Il cinema è fatto di meraviglie come questa. Tutto ciò che vediamo sarebbe potuto essere diverso. Silvana Mangano è stata un’attrice straordinaria, ma inimmaginabile come Gelsomina, dico fisicamente e visivamente. Eppure poteva succedere. Laurence Olivier doveva fare 8 e 1/2 e lo stesso Gattopardo. È impensabile un’altra donna al posto della Milo nel film di Fellini o qualcuno che potesse interpretare don Fabrizio meglio di Burt Lancaster. Eppure Visconti non ne voleva sapere, in nessun modo.
Cosa pensa della serie in arrivo sul Gattopardo?
Sono curioso. Mi sembra difficile che quel film si possa trasformare in altro, poi chissà. Tutto può diventare remake o serie tv, ma il confronto con alcuni miti è difficile da reggere. Il fatto che qualcuno provi a farlo è eccitante.
Quando ha saputo dell’esistenza di un libro francese su 8 e 1/2 con lo stesso titolo del suo?
L’hanno scoperto a Einaudi mentre eravamo in stampa. Quel titolo non è mio. È di Flaiano. Per me era importante tenerlo, mi ero preoccupato, in casa editrice non hanno dato peso alla coincidenza. È un libro che non ho letto per documentarmi, era troppo tardi, ma forse avrei evitato lo stesso.
Esistono oggi due registi italiani che non si parlano?
Non sono mai stato a casa di un regista che sparla di un altro. A me è capitato di lavorare contemporaneamente con Soldini e Moretti, con Moretti e Virzì, di rivalità feroci non ne ho viste. Forse esistono e non sono espresse. Ogni tanto di malevolenze ne sento, capitano, in quel caso cerco di comportarmi in maniera schietta. Nanni Moretti mi ha insegnato a difendere un gruppo in modo quasi omertoso, netto. Non penso di essere virtuoso, ma vivo il lavoro con sincerità. Quando si deve votare per lo Strega, dichiaro la mia terzina sui social, a costo di dare dei dispiaceri agli amici. Qualche responsabilità me l’assumo.
La fusione dei due mondi di cui parla, l’aristo-comunista e il pop, era l’ambizione politica del Pd. Artisticamente le pare un’operazione compiuta?
Da molti anni. Qualche volta con poca lucidità, in maniera grezza. Come in tutte le storie di rigidità, la fine significa cazzeggio totale. Salta la misura. Già l’aristocratico Visconti vedeva Sanremo e scommetteva sulle canzoni. Tenere separata la cultura alta da quella bassa è stato un modo per decidere delle gerarchie, non basate su principi estetici. Non mi ha mai riguardato. Sono nato in un mondo dove 8 e 1/2 e Canzonissima convivevano. Nei miei libri ci sono Fellini e le Kessler. Hanno avuto lo stesso valore formativo. La televisione, la musica leggera, Proust, Bergman: tutto mi ha fatto diventare adulto, mi ha dato coscienza e mi ha acceso. Sono nato quando apocalittici e integrati erano la stessa cosa.
Lei scrive che suo fratello la chiamava Fellini per prenderla in giro, perché sapeva a memoria Amarcord, oltre i film di Totò. Suo padre amava Carosello Napoletano e lei no. Cos’altro si vedeva in casa sua?
Tantissimo Eduardo, in tv quando c’era e poi in videocassetta. Mio padre comprò il primo videoregistratore di Caserta. Era un grande appassionato di cultura napoletana, ne sono stato condizionato, in un rapporto di odio-amore. Quando ho scoperto Ferito a Morte di La Capria, la Ortese, lo stesso Massimo Troisi, portatore di una visione critica che si riscatta dal napolicentrismo, per me è stata una ribellione. Eduardo è l’iniziatore di questo filone. Spesso è stato incompreso. Quando scrive Napoli Milionaria, cambia tutto. Per me è un faro. Se dovessi scrivere un altro libro così, sarà su di lui.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma