“Mi sono trasferito circa tre anni fa. Ero un po’ stanco del mio vecchio quartiere. Troppo tranquillo. Volevo un po’ di bottiglia rotte, anche se poi ci sono delle panetterie che sembrano delle mostre di architettura. Vorresti dirgli: ‘Fate il pane, state sereni!’.” L’intervista con Luigi Di Capua, fuori concorso al Torino Film Festival con Holy Shoes, esordio alla regia prodotto da Pepito Produzioni con Rai Cinema, parta con una chiacchierata sul suo quartiere, l’Esquilino. Il simbolo di una città multiforme in cui convivono realtà agli antipodi. Un po’ come quelle raccontate nel suo film grazie a quattro personaggi le cui vite, in forme e modalità differenti, vengono cambiate o messe in pericolo dalle scarpe, oggetto simbolo del desiderio per eccellenza.
Una riflessione sul rapporto tra uomo e oggetto e sul potere che esercita su di noi in un mondo in cui tutti desideriamo ciò che non abbiamo e in cui tutti vogliamo essere ciò che non siamo. E della sua prima esperienza senza i The Pills dietro la macchina da presa Di Capua racconta, tra il serio e l’ironico: “Con i film indipendenti, con poco budget, la sfida è quotidiana. È un campo di battaglia. Le metafore legate a morte e guerra non sono troppo distanti da come ho vissuto quest’esperienza”.
La Roma che mostra nel film non è sfacciatamente riconoscibile.
È una cosa a cui ho cercato di lavorare moltissimo. Prima di tutto perché mi piaceva l’idea che non fosse né una cartolina e né esclusivamente periferica. Due immagini che mi hanno altamente stancato. Non mi piacciono però neanche quei film girati a Roma dove la città sembra un luogo indefinito. Ho dovuto cercare di mantenere una sorta di confine tra la creazione di un universo che fosse quello di Roma ma con un punto di vista diverso, dove calcassi tantissimo la mano sull’idea di metropoli indifferente. Tant’è che i personaggi sono molto soli, esclusi, solitari, distanti uno dall’altro e, a volte, dalla città stessa. Volevo che il tema del film fosse trasversale, toccasse tanti aspetti e tante facce di Roma. Una città che, rispetto ad altre metropoli, ha scenari completamente differenti uno dall’altro. Mi permetteva di raccontare categorie sociali diverse, ma toccate dallo stesso tema.
Perché proprio le scarpe come emblema dell’ossessione di una società?
La nascita di questo progetto nasce dalla mia analisi un po’ scettica nei confronti di questo oggetto a cui diamo un potere gigante. Ed è anche paradossale perché la scarpa dovrebbe servire per fare la cosa più semplice e primaria del mondo, cioè camminare. Invece abbiamo costruito attorno a questo oggetto un valore gigante di status, nonché identitario. Ho sempre scherzato dicendo che sono lo specchio dell’anima. Se vedi una persona vestita elegante o casual, saranno comunque le scarpe a permetterti di identificarla. Più di qualunque altro oggetto tu possa indossare, saranno le scarpe a dire a quale categoria sociale appartieni. Iconograficamente poi è un oggetto molto cinematografico.
Che tipo di ricerca ha fatto attorno a uno dei business più redditizi al mondo?
Per prepararmi alla scrittura ho visto un documentario, Sneakerheadz, che raccontava di come in America quasi 2.000 casi di aggressione o omicidio sono legati alle scarpe. Una realtà peggiorata nel corso del tempo. Quando ero ragazzo c’era la fissa per le Squalo della Nike. Un paio di scarpe a cui ambivo tantissimo. Chiesi a mio padre di regalarmele. Costavano 300 mila lire. Mi rise in faccia. A Cinecittà, quando era più piccolo, ricordo di alcuni coatti che te le toglievano fuori scuola. Una delle storie raccontata in Holy Shoes è tratta da questa storia vera. Un gesto umiliante e, allo stesso tempo, molto forte.
Il suo è un film che parla di desiderio. Ma, come accennava, c’è un senso di solitudine e vuoto nei personaggi. Una metafora di quello che siamo come società?
Assolutamente. Sto scrivendo il mio prossimo film, Argentario, e parlo ancora del desiderio. Credo sia una delle tematiche più centrali e rappresentative dell’ultimo ventennio, sicuramente da quando ci sono i social. Siamo costantemente bombardati dal desiderio. E questo produce una perdita d’identità. Non sappiamo più chi siamo. Perché per quanto tu sia invaso da tanti input, non hai più idea di quali siano i tuoi reali desideri. René Girard, un sociologo francese, parla di “desiderio mimetico”. Fondamentalmente desideri quello che desiderano gli altri. Tutto è profondamente indotto. Vivere in una società drogata dal desiderio produce una spersonalizzazione maggiore, un appiattimento.
Di cosa parlerà Argentario?
Continuerà a trattare il tema del desiderio. Anche se questa volta non attraverso degli oggetti. Perché, chiaramente, anche io credo di non essere completamente avulso da questa società. Non sono un prete. Non sono qui a dire: “Loro fanno questa cosa. Per me è incomprensibile”. Mi sento completamente vittima di una società dei desideri. La vorrei combattere e in parte Holy Shoes nasce anche da questo. Ne vedo gli effetti profondamente negativi sulle persone. Come ispirazione per il film c’è anche una sneakers molto famosa, la Balenciaga triple s. Tra l’altro una scarpa bruttissima secondo me (ride, ndr). Costava quasi 800 euro. E la cosa assurda è che la voleva anche chi non poteva permettersela. Un ragazzo a chi li chiede quei soldi? Cosa è disposto a fare per ottenere quella scarpa? E cosa pensa possa dargli?
Secondo lei?
A volte gli oggetti ci danno la sicurezza di essere qualcosa che pensiamo di essere o di meritare. Credo sia anche uno dei motivi per cui le nuove generazioni soffrono d’ansia. Le aspettative che hai nei confronti della vita si scontrano con una realtà brutale dove siamo sempre più poveri. E nonostante questo le persone non riescono a rinunciare a nulla. C’è una frase che mi ha dato profonda ispirazione per il film. Ho conosciuto un pusher di nemmeno trent’anni, con una compagna e due figli. Gli ho chiesto: “Ma perché rischi ancora così tanto?”. E lui, anche un po’ divertito, mi ha detto: “Ti dico la verità: non spaccio per far campare la mia famiglia ma per comprare le Jimmy Choo a mia moglie”. Questa cosa mi ha fatto scattare un click in testa. Più sei povero, più hai bisogno di queste cose per emanciparti. È una schiavitù a cui le persone si sottopongono.
Su internet c’è un meme che mostra tre categorie di persone. Dalla più povera alla più ricca. La prima si veste griffata, l’ultima – che non ha bisogno di dimostrare nulla – indossa una t-shirt.
Un altro sociologo francese, Jean Baudrillard, ha scritto un libro, Il sistema degli oggetti, in cui afferma come questo si chiama “atteggiamento iper consumistico”. Quando cioè il povero sente di non poter sottendere. Se non può fare la vita di Jay-Z allora comprerà la macchina di Jay-Z. Un comportamento profondamente deleterio. E credo che non ci sia abbastanza critica in questo momento storico, come se nessuno ne volesse veramente parlare. Non per chissà quale ideologia, se non per questioni economiche. La moda è ovunque e piace a tutti. Seduce gli artisti che adorano stare in prima fila alle sfilate, gli dà status. Questo impedisce di muovere anche solo una minima critica nei confronti di un sistema che schiavizza molte persone. Devi comprare per sembrare qualcuno che non sarai mai.
Quattro storie visivamente diverse tra di loro. Come ci ha lavorato?
Dato che è una storia corale, ho cercato di renderle molto definite. Quattro volti differenti della città. Il motivo, inoltre, per cui non ho voluto fare una storia ossessivamente intrecciata. Sarebbe stata una forma di virtuosismo che non mi interessava. Per ogni tipo di storia ho cercato di avvicinarmi a un immaginario e di abbracciarlo in toto. La storia di Mei è maggiormente ispirata a un certo tipo di cinema asiatico, quella di Bibbolino a un cinema americano mentre per quella di Filippetto ho fatto il possibile per non ricadere nel solito immaginario da periferia movie. In lui ho sono sempre immaginato una sorta di Huckleberry Finn di città. Mentre per la storia di Luciana e Agnese avevo Almodóvar come riferimento.
Il sottotitolo del film è “Storie di anime e oggetti”. Ma secondo lei gli oggetti hanno un’anima?
È un tema bellissimo. Se si pensa alla tradizione, per esempio, quelli che noi chiamiamo feticcio non è altro che l’adorazione di un oggetto. Abbiamo sentito sempre la necessità di renderli sacri. Nell’antico testamento c’è la parabola del vitello d’oro. Mosé va sul monte Sinai per incontrare Dio. E il popolo ebraico sceglie un’altra divinità in sua assenza. Un idolo fabbricato da Aronne che iniziano ad adorare. Un dio concreto, tangibile, materico. L’uomo sembra aver avuto da sempre la necessità di creare dei simulacri e attribuirgli un animo.
C’è un oggetto della sua infanzia che custodisce gelosamente?
Mi piacciono i vestiti che uso per tanti anni. Ho delle camicie che continuo ad indossare anche se sono completamente distrutte. Mia madre mi dice che sembro un barbone. Però quando quell’oggetto vive e ha tante esperienze con te, è come se guadagnasse valore. E quindi una certa sacralità. Una volta, sempre mia madre, mi buttò un paio di All Star. A forza di lavarle erano diventate di un colore che non esisteva. Per me erano esclusivissime (ride, ndr). Quando le ha gettate sono impazzito. Anche un paio di occhiali da sole – che erano di mio padre – hanno un valore inestimabile. Se non li trovo vado nel panico (ride, ndr). È un ricordo. È memoria.
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