Questa intervista a Kasia Smutniak è pubblicata nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore. Kasia Smutniak è presente alla Festa del Cinema con la sua opera prima Mur.
“Non so se sono la persona giusta per parlare di Roma. Ci vivo, è vero, da più di vent’anni ma non appartengo a questa città. In verità non appartengo a nessun posto. Quando proprio devo dirlo, quando insistono, rispondo: sono di Varsavia”.
Proviamo. Intanto vedo che gira in Apetta, una forma di confidenza estrema con la città.
Bella vero? È molto vecchia, non si chiude, è piccola e gentile, entra dappertutto. È come una specie di libellula, nel traffico della città. Come se venisse da un altro mondo da un altro tempo. Mi sono innamorata di mio marito perché al primo appuntamento è venuto a prendermi in Apetta. Oddio no, non solo. Anche per questo, diciamo.
La sua prima casa?
All’Aventino, davanti al Giardino degli Aranci. Arrivavo da Milano, era finita una storia lunga cinque anni. Ho scelto una casa molto bella perché ero molto triste. Piccolissima però, un buco. Un buco con vista.
Perché l’Italia, e infine Roma?
Non ho programmato di vivere qui. Sono partita da Varsavia a 19 anni senza un piano, era l’anno sabbatico dopo il liceo. Avrei voluto fare la pilota militare. Tutti nella mia famiglia, con l’eccezione di mia madre che è medico, sono e sono stati militari. Mio padre, mia nonna. Poi c’è stato un incidente, un lutto in famiglia, ho perso il momento e così sono partita. A Milano mi sono fermata per una possibilità di lavoro. Nel cinema però tutto accadeva a Roma, dunque dopo qualche tempo ho deciso di trasferirmi. Ancora oggi, però, penso che non sia il posto dove vivrò per tutta la vita. Le cose accadono: tu pianifichi, e invece.
È accaduto che restasse vent’anni, la metà della sua vita.
Perché è una città che ti accoglie. Un punto giusto nella mappa del mondo. Una via di mezzo fra gli estremi. È una città che ti addormenta, rallenta il tuo sistema, cambia il metabolismo. In un mondo così veloce, Roma non ha pretese. Ma è spiritualmente molto forte. Ha una connessione col passato precisa, ti mette di fronte al rispetto della storia, della memoria. Dà la sensazione che nulla cambierà. La staticità di Roma, la frenesia del mondo: è un connubio che funziona. È bello tornarci, più che viverci. Ti fa pensare che sei sempre solo di passaggio. Tutto si ridimensiona: sei una piccola cosa, di fronte a Roma. Ti alleggerisce dalle responsabilità.
I suoi figli, Sophie e Leone, sono nati qui. Sono romani. Questa non è una radice, per lei?
È strano ma no. È vero sono nati qui, ma parlano anche polacco, vivono nel mondo. Chissà se sarà questo il loro posto. Non posso certo dire al posto loro. Non so, del futuro. Ho imparato anni fa a non fare progetti a lungo termine. Sto dove sto. Mi trovo bene dove sto bene. Dove mi sento sicura. Anche le case degli amici sono le mie case.
La vostra è a due passi dal quartiere Coppedè, la zona Liberty, un posto pieno di incanto.
Sì, molto bello, ma la verità è che siamo venuti a stare qui solo perché è vicino all’ufficio di Domenico. Neppure mio marito appartiene a Roma. È di Bari. Poi stiamo benissimo qui: è come un piccolo borgo. Ogni quartiere in questa città diventa un paese, finisci per vivere in quattro strade. Sei di quel quartiere, non di Roma. Stiamo a casa, nel fine settimana, quando possiamo, molto spesso, andiamo a Campagnano. Quello sì, ecco: quello è un posto molto importante per noi. È lì che ho piantato i miei alberi. Se me ne andassi mi dispiacerebbe perderli, ma sono anche abituata ai grandi cambiamenti. Non ho paura.
Mi racconti di Campagnano, di quella casa.
Eravamo piccoli, Pietro ed io. Pietro è il padre di Sophie. Eravamo molto felici. Abbiamo fatto un mutuo, siamo andati in campagna abbiamo preso gli animali piantato gli alberi. Eravamo ragazzi, avevamo l’ingenuità di chi pensa di sapere che cos’è la vita. I nostri anni di luce. Poi quando Pietro non c’è stato più l’ho tenuta, la casa. È il passato, le radici, il presente, ora sono in pace, il futuro, gli alberi crescono. I figli se vorranno resteranno, lì avranno sempre un posto.
Tornano, gli alberi, nelle sue parole. Anche Mur, il suo film, racconta di un bosco.
Bielorussia. Il bosco e il mare sono elementi simili ma diversi. L’acqua non è mai ferma, il bosco invece si muove ma ha radici – dice chi siamo. La storia di quel confine è terribile: mi aspettavo sempre che qualcuno la raccontasse ma no, non succedeva, così alla fine ho deciso di farlo io. Ho deciso quando ho capito che potevo farlo. Non ero sicura di essere all’altezza. Sono andata. Il momento cruciale è stato quando ho trovato il silenzio. Mi aspettavo un grande movimento contro l’ingiustizia, una frenesia, invece c’era il nulla assoluto. Accettazione. Silenzio, appunto. Non fa notizia, non è importante, non interessa a nessuno, mi dicevano tutti. Così ho detto ok, proviamo. C’era, in quel silenzio, qualcosa che ho riconosciuto.
In che senso, riconosciuto?
Qualcosa legato al mio passato. L’indifferenza, direi. Ho cominciato a chiedermi: perché conosco questa sensazione, l’indifferenza? Così il film è diventato anche la mia storia, quella della mia famiglia. È un racconto molto personale, forse la cosa più personale che ho fatto. Solo se sei pronta ad aprirti vale la pena raccontare, no? Se non è personale, quel che fai, non ha senso. Eppure, anche in questo caso: è successo, non l’avevo previsto.
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