Una dea con dei colombi tra i capelli e una baracca costruita all’ombra di antiche mura cittadine. Antiche tombe etrusche e ville dal passato glorioso. E poi ancora archi, acquedotti, dipinti rupestri, grotte e stazioni polverose. Osservando i bozzetti inediti di Emita Frigato (David di Donatello per Noi Credevamo nel 2011), la scenografa de La Chimera, ci si perde in un mondo che cammina in punta di piedi tra realismo e surrealismo. Il mondo fiabesco immaginato da Alice Rohrwacher.
Quello della regista è un film di dualismi. Il presente e il passato, la vita e la morte. “Ognuno insegue la sua chimera, senza mai riuscire ad afferrarla. Per alcuni è il sogno del guadagno facile, per altri la ricerca di un amore ideale” recita la sinossi del film prodotto da Tempesta con Rai Cinema e in sala dal 23 novembre con 01 Distribution. Al centro del racconto, che si svolge in una cittadine sul mar Tirreno, Arthur (Josh O’Connor), un giovane uomo con un dono che mette al servizio di una banda di tombaroli. Arthur sente il vuoto della terra. Quello da cui saccheggiare oggetti di un tempo passato. Lo stesso dove ha lasciato il ricordo del suo amore perduto, Beniamina.
Da profani, per un film come La Chimera quanta preparazione c’è prima di arrivare sul set?
C’è una preparazione pratica, nel senso che hai un’equipe che lavora con te e con la quale prendi in mano le cose. Perché La Chimera è un film fatto a mano, in maniera molto artigianale senza effetti visuali digitali. Ci ha impiegato tra le 4 e 5 settimane di preparazione. In realtà il mio lavoro con Alice è partito un anno prima, quando è nata la sceneggiatura che ha dato il via al lavoro di location e di recupero. Oltre all’idea di come affrontare alcuni argomenti come quello delle tombe. È stato tutto un work in progress, ogni giorno. Quelle settimane ci hanno permesso di partire. Ma poi il film è stato un continuo lavoro di preparazione, di montaggio. Una ruota infinita (ride, ndr).
Con quante persone ha lavorato?
Il reparto si crea in funzione del lavoro che c’è da fare. E delle distanze che ci sono da un luogo all’altro. A volte si lavorava contemporaneamente a Tarquinia e Viterbo. In quel caso si ha bisogno di più persone. Per La Chimera il reparto era composto da me, dall’art director Elisa Bentivegna, dall’arredatrice Rachele Meliadò, dall’assistente Alessandra Frigato, da due attrezzi costruttori di preparazione e tanti ragazzi che mi hanno aiutato. In realtà l’idea del grande film, per come li affrontiamo io e Alice, non c’è. Nel senso che si lavora, però non si capisce al volo a che tipo di sforzo uno può andare incontro.
Le meraviglia, Lazzaro Felice, Le pupille. E ora La Chimera. Con Alice Rohrwacher avete un modi di collaborare ormai collaudato?
Siamo arrivate al punto che ci si capisce al volo. Però è vero anche che ogni progetto ha la sua storia. Io e Alice siamo molto simili caratterialmente e anche nel metabolizzare la storia. L’affrontiamo, nella sua diversità, sempre insieme. C’è un lavoro mentale, pratico, di progettazione continuo. A parte che ci vogliamo tanto bene e ci stimiamo, adesso ci viene facile perché ormai siamo collaudate. Sappiamo un po’ l’una dell’altra, conosciamo i nostri sentimenti, il nostro approccio al lavoro. Ora è più semplice ma all’inizio è stato un innamoramento.
Il film si muove tra passato e presente, vita e morte. Come si traduce questo continuo dualismo nella scenografia?
Un’altra cosa che unisce me e Alice è uno sguardo pasoliniano del lavoro che facciamo. Sono i luoghi che ci parlano più che la ricerca del luogo scritto in sceneggiatura. Si tratta di una forma poetica di affrontare il lavoro. Ne La Chimera il sentimento era quello di entrare in una tomba insieme ai tombaroli, tra l’emozione e l’idea della profanazione. Abbiamo ricostruito tutte le tombe che appaiono nel film che sono in parte finte e in parte allestite all’interno di luoghi che ci hanno accolto. Questo è l’approccio che abbiamo: una forma di sospensione c’è anche dall’inizio nella costruzione del progetto, nel sopralluogo. Magari t’imbatti in un filo rosso impigliato in un ramo e pensi che venga dall’aldilà. È un giocare ma essere anche molto in ascolto con quello che la storia ti dice.
Parlando delle tombe e della parte più storica degli oggetti ritrovati nel corso del film, che tipo di ricostruzione c’è dietro?
Non si dovrebbe dire però, insomma, un po’ di materiale l’abbiamo trovato in zona.
Avete fatto i tombaroli anche voi?
(Ride, ndr) Abbiamo avuto relazioni, diciamo. Perché i tombaroli del film sono reali. Quindi abbiamo avuto un contatto con questo mondo molto da vicino che è servito soprattutto per le immagini in primo piano. Poi abbiamo lavorato con artigiani bravissimi di Tarquinia che hanno riprodotto alcuni oggetti. Abbiamo fissato un momento storico etrusco a cavallo tra il quarto e il sesto secolo. Ci siamo documentati moltissimo. Invece, tutta la sequenza in cui loro scavano, se l’avessimo realizzata dal vero ci avremmo messo una settimana. Lì c’è tutta una costruzione in un bosco scavato. Abbiamo realizzato un tipo di cunicolo a strati. Era una specie di matrioska, poi siamo entrati in questa grotta dove ho ricostruito una tomba etrusca del quarto secolo con le pitture rupestri.
Per gli interni della casa del personaggio di Isabella Rossellini, Flora, che parlano di un passato glorioso ora decadente da dove ha tratto ispirazione?
Quella villa si chiama La Pisana, è nella zona di Castel Giorgio a Orvieto. L’abbiamo trovata così e abbiamo immediatamente abbracciato l’idea. L’80% è realtà. A quello ho ricostruito la cucina e abbiamo dipinto le scale ma è la casa stessa che ci ha detto: “È questo il luogo dove il personaggio di Flora può vivere”. Perché, appunto, è una storia finita, è una morte in qualche modo.
La statua della dea, simbolo della discordia tra i tombaroli e Spartaco, come nasce?
È stata un parto (ride, ndr). L’abbiamo cercata per un anno e mezzo disegnando e illustrando. Poi c’è stato un grande momento, l’idea di Fabian Negrin, illustratore con il quale Alice collabora per le locandine dei suoi film. Dal suo bozzetto abbiamo capito che la dea era lei. Perché è una dea che protegge tutte le creature e ne è circondata.
Lei è anche costumista. In una sequenza Alba Rohrwacher indossa un abito giallo molto acceso che si sposa benissimo con la scenografia circostante. Come ha lavorato con la costumista del film, Loredana Buscemi?
Con lei ho un rapporto ormai pluridecennale. La conosco da quando era ancora l’assistente di Eva Cohen, quindi da trent’anni. È l’approccio con il lavoro che ci porta a essere continuamente vicine. Io che corrispondo con i miei bozzetti e lei che corrisponde con le sue stoffe e i suoi colori. Ogni decisione è fatta sempre insieme ad Alice.
Attraverso i personaggi di Arthur e Italia crede che La Chimera sia anche un film che vuole ricordarci la necessità di conservare, di prenderci cura del nostro passato?
Assolutamente. Soprattutto parla di rispetto. I tombaroli non hanno rispetto per quello che l’oggetto trafugato simboleggia. È lì non per essere visto, ma per accompagnare le anime dei morti. Invece loro profanano e portano alla luce cose che sono nate per essere invece nascoste. Il personaggio di Italia è bellissimo. Ha uno sguardo puro rispetto a quello di cui poi viene a conoscenza. Di fatto è l’unica che evidenzia questa mancanza di rispetto. “Ma come? Entrare in una tomba?”.
Lei come ha iniziato? Ha sempre voluto fare questo?
Sì, sono partita com apprendista stregone all’età di 18 anni con un film di Sergio Citti che si chiamava Due pezzi di pane. Lo scenografo era Luciano Ricceri e l’arredatore Ezio Di Monte. Mi hanno preso per mano e ho seguito il loro percorso. In qualche modo mi hanno adottata. Ma era esattamente quello che volevo fare fin da piccola, ero appassionata di disegno. In più mio padre era un uomo di cinema, era il famoso animalaro. Avevamo tanti animali e venivano spesso utilizzati per i film. Fin da piccola mi portava sui set, conoscevo l’ambiente, mi era familiare. La passione per la scenografia è nata quando mi si chiamò per la prima volta come aiuto dell’aiuto dell’aiuto dello scenografo (ride, ndr).
E questo è un mestiere in cui si cresce scalando un “aiuto dell’aiuto” alla volta?
Sì, si deve lavorare tanto. E poi l’esperienza ti da sicurezza e quindi ti libera un po’ dal discorso creativo fantastico. Più fai e più ti viene semplice immaginare qualcosa di diverso. L’esperienza sul campo è fondamentale. I miei tempi erano quelli della gavetta. Per anni ho fatto l’assistente volontaria lavorando in uno studio. Sono passata di mano in mano. Però al primo film l’ho firmato a 27 anni.
Ha vissuto il passaggio dal lavoro puramente artigianale all’uso degli effetti digitali. Come ci si relaziona?
Sono anche sposata con un capoccione di visual effects, Paolo Zeccara, per cui lo macino tutti i giorni questo discorso (ride, ndr). Adesso sono in una fase molto scettica. Si parla tanto di intelligenza artificiale. Ora i registi e le produzioni fanno i mood board dove chiedono all’intelligenza artificiale di illustrare il film. Il percorso creativo però è fatto di tanti ingredienti che sono non solo nozionistici o di conoscenza della materia. Ma sono anche fatti di sensibilità, tatto, sentire, ascoltare, guardare, approfondire. E quindi tutto questo meccanismo veloce di realizzazione mi trova scettica. Siamo in un livello dove l’uomo perde il suo fare e si affida ad altro. Per me è un po’ preoccupante. La vivo un po’ così, però ci sto dentro.
In che modo?
Ho finito da poco un film con Francesco Amato, Santocielo, il film di Natale di Ficarra e Picone. Ho collaborato con Stefano Marinoni e Paola Trisoglio per realizzare un mondo fantastico. Mi sono divertita. Però la mia passione è proprio il fare la materia. Preferisco sempre avventurarmi con qualcosa che riesco a dominare con le mani.
In questi ultimi anni lei ha lavorato con maestri come Mario Martone o i fratelli Taviani e parallelamente con nuovi registi come i D’Innocenzo e Alice Rohrwacher. Crede che ci sia un filo che li unisce?
Sono una che crede nell’incontro. Penso che ci si trovi. Sì, c’è un filo che ti unisce in qualche modo: mentale, di sensibilità, di conoscenza, di passato, di vissuto. Emma Dante per me è un’altra luce, così come Francesco Amato con cui collaboro spessissimo. Sono tutte persone che sento come miei fratelli. Era un po’ destino che ci dovessimo incontrare. Ci si riconosce. E poi scatta la voglia di collaborare, si scatena la sensibilità.
In questi ultimi anni le produzioni estere arrivate in Italia sono state innumerevoli. E questo ha portato a grandi investimenti. Ma crede ci sia un rovescio della medaglia? Che tutta l’attenzione finisca per confluire lì?
Il problema è che adesso l’unico dio, è il dio denaro. E quindi purtroppo è vera questa cosa. Arrivano le produzioni americane e tutti si concentrano su questo perché hanno più disponibilità economiche. Ho avuto molta difficoltà addirittura a trovare dei teatri dove costruire a Cinecittà perché invasi da queste mega produzioni non solo cinematografiche ma anche televisive. Lì c’è un guadagno e i nostri film, per quanto importantissimi, vengono trattati con budget molto bassi. E quindi o fai miracoli oppure se ne risente, anche da un punto di vista qualitativo.
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