Questo articolo su Claudio Caligari è pubblicato nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, ora in edicola.
Qui sono raccontati i protagonisti del cinema romano. Venticinque anni fa usciva in sala (era l’11 settembre 1998) L’odore della notte, l’opera che cambiò per sempre il modo di essere raccontata (e di raccontarsi) della città che Claudio Caligari ha amato spietatamente, Roma, a cui è dedicata questa pubblicazione monografica. Minerva Pictures attraverso Film & Clips, il primo canale web di cinema gratuito e legale in Italia e tra i primi in Europa (4,6 milioni di utenti), nato nel 2014 dalla volontà di dare visibilità alla prestigiosa library della casa di produzione e distribuzione, composta da oltre 2150 titoli, il 30 ottobre scorso ha messo sul suo canale YouTube il film integrale nel formato originale (presente anche su Raiplay).
Dal 20 novembre insieme a Cat People lo riporterà in sala, in versione restaurata in 4K, presentata alla Festa del Cinema di Roma.
“Muoio come uno stronzo. E ho fatto solo due film”. Così Valerio Mastandrea ricordava anni fa Claudio Caligari. “Se n’è uscito così, ad un semaforo rosso di viale dell’Oceano Atlantico. Stavamo andando insieme a parlare con un amico oncologo in ospedale. La risposta ce l’avevo pronta ma l’ho lasciato godere di questa sua epica attitudine alle frasi epiche che accompagneranno per sempre tutti quelli che lo hanno conosciuto”. Sembra un film. Un loro film. “Ho aspettato il verde in un altrettanto epico silenzio (sono molti anni che era stato operato alle corde vocali). Ripartendo ho detto ‘c’è gente che ne ha fatti trenta ed è molto più stronza di te’”. Davvero impossibile riassumere meglio la romanità, il cinema italiano e Claudio Caligari.
Uno che da solito stronzo è stato trattato, tra progetti geniali (quasi) mai andati in porto e un’aura mitica che lo aveva destinato a diventare grande maestro, ma solo post mortem.
“Ho fatto solo due film”. Solo. Si riferiva ad Amore Tossico e L’odore della notte. E poi, certo, Non essere cattivo, al cui tramonto del primo montaggio il cineasta ha salutato tutti, appena 67enne. Capolavori che hanno incastonato il nuovo cinema romano, quello che ha lasciato il neorealismo che da età dell’oro e di riscatto era divenuto ricatto artistico e morale, quello che aveva perso tutte le partite regionali e internazionali chiudendosi nelle terrazze che Scola aveva capito prima e meglio di tutti, quello che era diventato il “cinema due camere e cucina”, meglio se a Garbatella e dintorni, ombelicale, autoreferenziale, scarso di budget e di visioni, ma grande di ego e di amici degli amici.
Da cartolina a caricatura
Un cinema borghese e piccolo piccolo che blandiva le debolezze di una classe sociale e di una città che a inizio anni ’90 aveva perso la sua centralità cinematografica (in favore della commedia napoletana e toscana), trasformandosi da cartolina a caricatura. Perché di Caro Diario ce n’è uno e tutti gli altri son nessuno. Ci voleva il Caligari di Amore Tossico, sorta di prefazione inascoltata di quel nuovo cinema romano, nel 1983 capace di costruire un percorso stupefacente, in tutti i sensi, tra Ostia e Centocelle, per smuovere le acque.
Ci voleva un regista che negli anni ’70 aveva bevuto alle fonti più disparate: la politica, i documentari di lotta no budget, il poliziottesco e anche se non l’ha mai confessato quell’epilogo della commedia all’italiana, tragico e feroce, che va da Brutti, sporchi e cattivi di Scola a L’ingorgo di Luigi Comencini, periodo così ben raccontato da Cesare Paris nel libro acuto e affilatissimo La risata amara. La morte della commedia all’italiana (ed. Bibliotheka). Il tutto impastato con la New Hollywood più cupa.
Odori e umori da Caligari a Caligari
L’anno in cui Roma al cinema si è reinventata spogliandosi delle vesti imperiali, del bianco e nero del neorealismo ma anche della disillusione a suo modo romantica di C’eravamo tanto amati che ancora teneva in sé la romanità antiretorica e ironicamente epica e infine la cartolina bolsa e imborghesita. È il 1998. Esce L’odore della notte, Peckinpah che incontra Scorsese a casa di Pasolini, con un giovane Valerio Mastandrea che ne diverrà simbolo ma non schiavo, povero diavolo dalla faccia pulita e stralunata, e Marco Giallini, che fa cantare Little Tony e decantare una città tutta sbagliata. Roma è finalmente libera, grazie al regista più indipendente e antagonista, a quel figlio del Nord che l’aveva subito capita, mai sedotto dalla sua apparenza paracula ma solo dalla sua verità bastarda.
Da Caligari a Caligari cambia Roma e diventa altro, al cinema (e pure fuori, perché con lui ci dobbiamo rassegnare al fatto che qualcuno ha tolto il velo delle ipocrisie dal e del nostro immaginario) fino a Non essere cattivo, appunto. Mastandrea qui è produttore delegato, garante del terzo che sa essere l’ultimo film di un maestro che rifiutò Mastroianni perché non aveva un progetto per lui: qui la coppia di attori che cambierà le sorti del cinema capitolino e italiano è formata da Alessandro Borghi e Luca Marinelli.
In mezzo, c’è tanto. C’è Daniele Vicari: ancora Mastandrea, ancora una periferia che mangia polvere, sogni spezzati o mai nati, motori, criminalità disorganizzata, solitudini.
Velocità massima è un affresco che usa il cinema di genere, una New Cinecittà che tratta Roma come la New Hollywood fece con New York. Guardando altrove, oltre i simboli, dove appunto si alza la polvere e si attacca ovunque. Un capolavoro, quell’esordio di chi diventerà uno degli autori più importanti del cinema italiano, che inchioda la città e il cinema alle proprie contraddizioni. E lo fa con l’appassionata e carismatica Giovanna che contrasta la deriva testosteronica di questa “new wave de Roma” appena nata, con Alessia Barela motore emotivo e non solo di questo western metropolitano.
Criminalità e supereroi
Lo fa poi, salendo nella scala sociale, con un’etica e estetica radicalmente diverse Gabriele Muccino tra licei e ultimi baci.
Ed è qui che il cinema commerciale, a questo punto può e deve battere un colpo.
Lo fa con Michele Placido e Romanzo Criminale, che crea un pantheon di giovani attori (su tutti Favino, Rossi Stuart e Santamaria, ma anche Trinca e Scamarcio e tanti altri), una nuova generazione che trova la consacrazione pop e popolare e anche qua, per poi diventare serie, da Sollima a Sollima, altro ciclo in cui possiamo trovare un’evoluzione di questo processo nella Roma Nord sbirra e violenta e fascista di A.C.A.B. e il suo compimento, estetico e (a)morale nella sontuosa, sexy, decadente Suburra o in quella moribonda (e che porta verso un’altra capitale ancora, quella apocalittica) di Adagio.
Negli stessi anni c’è un autore sottovalutato e pieno di talento come Luciano Melchionna che in Gas ci racconta una tragedia intima e violenta – anche se più incentrata su Latina, che come gli eredi e innovatori di questo ventennio cineromano, i fratelli D’Innocenzo, ci insegnano è figlia e sorellastra minore di Roma per tanti versi – e in Ce n’è per tutti, con più apparente leggerezza, percorre una Roma altra e alternativa. Fuori e dentro il raccordo anulare, perché la Roma del nostro immaginario passa pure per quell’anello, che sia il Sacro Gra di Rosi o quello cantato da Corrado Guzzanti.
Rosi arriva in coda, dopo chiuderà il cerchio il Mainetti di Lo chiamavano Jeeg Robot (e le sue filiazioni, come la serie Christian), ultimo colpo di reni di questo ciclo storico, narrativo e cinematografico, a ricordarci, con premi e successo, cos’è stato questo nuovo cinema romano, ma anche cosa sarà la prossima new wave. Il genere, dai supereroi alla fantascienza è l’ultima grande idea di quest’epoca e la prima della successiva, suggellata in questo senso dalla Luna Gualano degli zombie contro l’immigrazione di Go Home o degli alieni di periferia stile District 9 de La guerra del Tiburtino III.
Roma è la terra dell’abbastanza, è la vita possibile dei nostri ragazzi, figli della bella gente e degli equilibristi di Ivano De Matteo che mentre i suoi colleghi riscrivevano lo skyline morale e l’orizzonte dello sguardo sulla capitale, ne dipingeva i nuovi archetipi con un’opera cinematografica e antropologica che potrebbe essere la nostra Heimat romanesca, se vista tutta insieme.
L’Armadillo come coscienza
Roma è Zerocalcare che ti racconta la Rebibbia che regna, che sulle pagine ha ritratto un popolo e una generazione dimenticate, in cui il Secco e l’ossessione per il gelato è così tanto caligariana, in cui il Cesare di Questo mondo non mi renderà cattivo assomiglia troppo al Cesare di Non essere cattivo. Perché Roma si sta imbastardendo, sta diventando cattiva come non è stata mai – menefreghista sì, ma egoista mai – e chi la conosce e la ama nonostante tutto, lo ha capito e prova a proteggerla ricordando chi è e come eravamo. Per sua e nostra fortuna ci sarà sempre l’Armadillo a farci da coscienza intima e collettiva. Con la voce, ovviamente, di Valerio Mastandrea.
Da Caligari a Caligari abbiamo scoperto la Roma nuda di Califano e la Roma cruda di Piotta, quella che ora permette ai D’Innocenzo di ridisegnarla ancora diversa, a Francesca Mazzoleni di portarla alla sua Punta Sacra, a Riccardo Milani di ritrovarla fragile rete metropolitana di affetti e confronti, di genere (Scusa se esisto, con un’architetta in incognito che peraltro vuole riqualificare il Corviale) e di sentimenti e di classe targati “gatto in tangenziale”, è la Roma disidratata, infuocata, presa d’assalto da droga e aerei dei Virzì, dei Sollima, dei Castellitto (Pietro). È la Roma erede di sé stessa e della sua rabbia di Dogman di Matteo Garrone, che probabilmente l’ha raccontata, in quel ventennio, con lo sguardo più originale, vario e spiazzante.
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