In sala il 16 novembre, il terzo film della drammaturga siciliana Emma Dante, Misericordia, è stato presentato oggi fuori concorso alla Festa del Cinema di Roma. Tratto – come il lavoro precedente, Le sorelle Macaluso – dall’omonima pièce teatrale della regista, in scena nel 2020, il film è un duro viaggio nel microcosmo di una piccola “tribù” di donne siciliane (le attrici Simona Malato, Tiziana Cuticchio, Milena Catalano), prostitute sfruttate da un “orco” (Fabrizio Ferracane), e del loro figlio adottivo Arturo, un ragazzo autistico orfano di madre (Simone Zambelli).
“Il mio testo più crudele”, aveva detto la regista, che l’8 marzo debutterà al Piccolo di Milano con Re Chicchinella (“un apologo sull’ottusità del potere” tratto da una favola di Giambattista Basile), da sempre in prima linea nella denuncia della violenza sulle donne, degli squilibri di genere, della disperata solitudine degli ultimi. Eppure, nel viaggio dal palco al grande schermo, Misericordia ha guadagnato una dimensione “da favola”, che Dante oggi rivendica con convinzione: “In realtà non penso di essere crudele. Racconto storie di persone che non hanno la capacità di fare del male, come Arturo. C’è dell’innocenza in lui, come nelle mie donne sfruttate, dai corpi martoriati”.
E poi c’è la violenza. Arturo è “figlio” di un femminicidio.
C’era già in nuce nella versione teatrale. Una delle tre madri raccontava del femminicidio che aveva portato alla morte della madre di Arturo, Lucia. Ma gli uomini erano solo raccontati, evocati. Nel film diventano corpi reali. Arturo è una conseguenza della loro violenza. Che non è solo nei confronti delle donne, ma di tutta l’umanità.
La violenza sulle donne: perché il tema la ossessiona?
Io penso che serva parlarne e dedicare tempo a questo orrore. Ogni giorno va sempre peggio, ogni giorno c’è un femminicidio. Atti spesso accompagnati da cerimoniali atroci: donne trovate legate in un cimitero, fatte a pezzi e nascoste in “location” precise, pensate. Uno che pugnala la fidanzata incinta di sette mesi con 42 colpi non agisce d’istinto. C’è una furia, una rabbia, qualcosa che sta lì dentro da anni, fin dalla nascita.
E come si risolve?
Finché non cambierà la mentalità e la cultura dell’approccio del maschio nei confronti della femmina, e di certe femmine che educano i maschi in modo sbagliato, traviandoli, la rabbia che questi uomini si portano dentro non finirà.
Qual è stata la scintilla per la storia di Misericordia?
Ero in ospedale con mio figlio per alcuni controlli e ho visto un ragazzino completamente sequestrato dallo spettro dell’autismo. Girava su se stesso come un derviscio impazzito. Girava e rideva, girava e rideva. A me sembrava felice, anche se chiaramente non riusciva a uscire da quel loop. La sera andai a teatro a vedere uno spettacolo di danza: nel ballo di Simone (Zambelli, ndr) ho rivisto quel ragazzo, e subito gli ho proposto di collaborare al progetto. Da lì è cominciato tutto.
Dove ha girato?
In una riserva naturale in Sicilia, Monte Cofano vicino a San Vito Lo Capo. Abbiamo girato tra maggio e giugno, un momento in cui la luce è molto graffiante, aggressiva. Il riflesso del tramonto dipingeva la montagna: viola, poi arancione, poi buia. E la montagna è un po’ la grande madre di Arturo: lo accoglie all’inizio, prova a difenderlo quando “Polifemo” cerca di ucciderlo. E poi c’è il mare: una delle donne, dopo essere stata stuprata, va a dormire nel fondo del mare. Ha a che fare con la favola: il mare che accoglie i disperati (ci pensa un attimo, ndr). Non solo li accoglie, certo.
Al terzo film, nel suo futuro c’è più cinema?
Io sono soprattutto una teatrante, resto nella cripta segreta e oscura del teatro, dove non entra la luce, come i vampiri. Quello è il mio mondo, il mondo dei morti. Ma il cinema mi affascina, è un amore viscerale. Il mio cinema parte dalle viscere: non sono un’intellettuale che si mette a tavolino a programmare le inquadrature. Ma non mi sento mai sicura sul set. Ed è ciò che mi spinge a continuare.
Le sono mai arrivate offerte dalle piattaforme?
Sinceramente no.
Ma una serie tv la farebbe?
C’è un progetto che mi piacerebbe fare, legato ad Andrea Camilleri, che è stato il mio maestro. Niente a che fare con Montalbano. È qualcosa con cui mi potrei anche divertire, ma vediamo. È tutto campato in aria ancora, non so nemmeno se si farà. E poi io sono anche molto lenta. Da Via Castellana Bandiera, il mio primo film, a Le sorelle Macaluso sono passati sette anni. Se faccio una cosa, devo essere molto motivata.
Il cinema (in sala) soffre, il teatro come sta?
Il teatro è un disastro a livello istituzionale, come credo anche il cinema, a giudicare dai discorsi che sento sul taglio dei fondi. Ma il pubblico c’è, i teatri sono pieni. Chiudere un teatro oggi è come dare una pugnalata alla collettività, che ha bisogno di quegli spazi. Per il cinema è diverso. A Palermo le sale sono vuote: la gente guarda i film sul cellulare. E allora varrebbe la pena battersi per rieducare la gente ad andare in sala, a guardare e ascoltare i film insieme. Mi rendo conto che sia difficile, ma bisognerebbe resettare tutto. Altrimenti, se ci restano solo i telefonini, mi dispiace: il cinema è morto.
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