Con la cultura non si mangia. No non lo ha detto Nanni Moretti.
Lo disse il ministro Tremonti, anche se da anni lo smentisce, ma lo pensano in tanti. Persino l’illuminato Barack Obama, faro della sinistra moderna, si lasciò sfuggire qualche anno dopo, di fronte ai giovani del Wisconsin (mica i nazisti dell’Illinois), il consiglio di cercare settori più redditizi di quelli a cui avrebbero potuto accedere “con una laurea in storia dell’arte”.
Eppure diversi studi indipendenti e autorevoli dicono, senza tema di smentita, che un euro pubblico speso in cultura ne porta, allo stato, due. Quando va male, perché la media è uno a sette e si è arrivati nei momenti migliori anche a uno a trenta. Insomma, puntare sulla cultura è più intelligente (e sicuro) che giocare in borsa. Gli artisti sono tra i più precari, anche per vocazione, va detto, ma, cosa ancora più insopportabile, tra i meno tutelati, esposti più di altri alle crisi economiche, alla scarsa serietà dei committenti ma anche a una facilità di accesso alla professione che molto spesso penalizza i più preparati e titolati.
Ed è questo che vogliamo ricordare in questo primo maggio, con l’esempio degli “uno su mille” che ce l’hanno fatta (e purtroppo la proporzione è ancora più punitiva). L’artista troppo spesso ha studiato e lavora sulla sua arte per la maggior parte del tempo della sua giornata, ma il suo reddito, quando è mediamente fortunato, è da secondo lavoro e molto più spesso confina con la paghetta o l’arrotondamento occasionale.
I mille provini finiti male, l’esercito di turnisti che nella musica tengono su l’industria e che rasentano l’indigenza, i comici che battono la penisola tra villaggi vacanze e ingaggi incerti in saghe e affini, la costante incertezza e posticipazione dei pagamenti costruiscono un esercito di uomini e donne che credono nella bellezza e la praticano, così da rendere migliore il nostro mondo, ma quest’ultimo non li ricambia mai.
Ecco perché oggi riproponiamo alcune interviste a due registi di successo e ad alcuni de I David di The Hollywood Reporter Roma nella forma di un appello ai e dei lavoratori, mostrando le storie di chi, magari venendo dalla provincia e vivendo quel precariato, ce l’ha fatta.
Per una volta non incorniciando i loro nomi e cognomi in titoli sfavillanti di giornali, ma rendendo loro onore con l’essenzialitá di ciò che sono e fanno. Con il cognome prima del nome, come nelle buste paga, negli albi professionali, negli ordini di servizio e nella lista dei lavoratori di una qualunque azienda.
Nanni Moretti: il regista
I primi passi nel cinema, i tentativi – tutti falliti: “per fortuna”, dice – di lavorare da ragazzo sui set di Luigi Magni e dei fratelli Taviani. I Super 8 degli esordi e la pellicola, l’amata pallanuoto e la politica, abbandonata a 17 anni. La sala: il cinema come atto creativo e destinazione, il cinema da regista, esercente, pubblico e produttore. No a Netflix, sì ai coreani, mai con chi pensa che le battaglie non vadano combattute, anche “quando sembrano perse” in partenza. Tra ironia e autoironia, amarcord e autoanalisi divertita, Nanni Moretti si racconta alla direttrice di The Hollywood Reporter Roma Concita De Gregorio, in occasione dell’uscita al cinema della sua commedia Il sol dell’avvenire. Un dialogo confidenziale in cui il regista racconta qualcosa del suo privato, il momento di confusione quando a 17 anni abbandonò prima la pallanuoto, poi la politica, infine la scuola. E quel punto, dopo un viaggio in Francia e uno a Londra, la decisione: “Mi aggrappai, pur confusamente, al cinema”.
Un incontro che attraversa tutta la carriera del regista, atteso a maggio in concorso al Festival di Cannes, a cinquant’anni esatti dai suoi primi corti La sconfitta e Paté de bourgeois. “Mi è sempre venuto naturale raccontare con ironia il mondo generazionale, politico e sociale, della media borghesia di sinistra – dice – e farlo mettendomi in scena. Sono cose che mi porto dietro da tutta la vita”.
Nanni Moretti, da Io sono un autarchico a Il sol dell’avvenire
Nel nuovo film, scritto con le sceneggiatrici Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella, Moretti torna alla commedia dopo i toni più dolenti di Mia madre e Tre piani, mettendo in scena un vero e proprio “manuale d’uso” di se stesso. Un “Nanni-tutorial” che, assicura, “non era il programma estetico del film. Però in effetti, tornando dopo più di vent’anni a un film da protagonista, è inevitabile il riaffacciarsi di temi e di toni. Va bene, accolgo questa interpretazione. Ma se è così, non ne ero consapevole”.
Chiude l’intervista una riflessione sul rapporto di Moretti con la promozione dei film, sulla genesi de Il sol dell’avvenire e sul rapporto che lo lega fin dal suo secondo lungometraggio, Ecce bombo, al Festival di Cannes. “Ci sono stato tante volte, anche come presidente di giuria. Alla fine certamente conta il merito, ma alcuni premi sono anche frutto del caso. Spesso il palmares non segue logiche razionali. Quest’anno ci sono registi che ho sempre seguito, come Ken Loach, Wim Wenders o Aki Kaurismaki. Ma sono curioso di tutti i film in programma”
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