Le origini di Amelio raccontate da Amelio: “I soldi rubati per andare al cinema? Non sono stati sprecati”

Candidato ai David per Il Signore delle formiche, il regista ripercorre con la rivista Bianco e Nero i suoi primi passi nella settima arte. Dagli inizi con Vittorio De Seta ad un musicarello a fianco di Lina Wertmuller passando per un mitico incontro con Orson Welles. Che sentenziò: "Nella vita di ogni regista ci deve essere un western"

Cominciamo dall’inizio. O quasi. Il tuo arrivo a Roma nel 1965, senza alcuna conoscenza nel mondo del cinema.

Ero venuto a Roma per le vacanze di Pasqua, ma con nessuna intenzione di lavorare nel cinema. Anche perché in Calabria facevo il supplente di lettere in tante scuole medie. Avevo vent’anni, guadagnavo qualcosa, mi sembrava già molto. Ma in quella Pasqua, vengo a Roma perché un amico calabrese mi dice che nella sua pensione c’è un letto libero, suo fratello scende giù per le feste e il posto è gratis. Devo pagarmi solo il viaggio. Per me è una settimana di ferie, e soprattutto di film da recuperare. Come tutti i giorni, compro l’Unità e leggo un’intervista a Vittorio De Seta, che parla del suo nuovo film in preparazione, Un uomo a metà. Mi dico: quasi quasi lo chiamo. Sull’elenco del telefono ci sono due De Seta, o l’uno o l’altro… Poi scopro che uno è il numero dell’ufficio, l’altro di casa. Tento il primo, mi risponde una ragazza gentile. Mi chiede chi sono, controlla se il “dottore” è libero, mi chiede di richiamare dopo un’ora. È già un grande passo: ho trovato De Seta e non mi hanno mandato a quel paese. Quell’ora di attesa è un dono del cielo, perché ho il tempo di cercare una giustificazione alla telefonata. Mi si accende la lampadina: gli chiederò un’intervista! In fondo scrivo già da un paio d’anni su Giovane critica, la rivista del CUC di Catania diretta da Giampiero Mughini, un po’ il versante cinema dei Quaderni piacentini. Perciò, quando richiamo e De Seta mi risponde, gli spiego chi sono e gli dico che vorrei incontrarlo per qualche domanda. Mi risponde che il film è ancora in preparazione, che non saprebbe cosa raccontare… ma alla fine accetta: «Oggi è venerdì, venga lunedì verso le 11». Lunedì, a quell’ora, piove forte, arrivo bagnato fradicio. L’intervista va bene perché un po’ ero preparato, sapevo a memoria i suoi documentari, non ero il primo scemo che confonde De Seta con De Sica. Insomma, al momento di andarmene, oso il tutto per tutto: ma lei non avrebbe bisogno di un volontario che non pretende nulla, solo di stare in un angolo a guardare? Nemmeno stavolta mi manda a quel paese: «Se vuole, sì, ma patti chiari: al minimo fastidio, toglie il disturbo. Da domani può venire in ufficio».

Inizia così il tuo primo lavoro nel cinema. In cosa consisteva?

Per un po’ mi limito a farmi da parte, guardare, ascoltare, stare zitto. Poi un giorno c’è una riunione sul cast. Io sono in piedi, in un angolo della stanza – non ho ancora diritto a una sedia. Si parla di una parte importante, quella di Marina, una ragazza sui 16 anni, della quale il protagonista si innamora invano. L’aiuto regista dice: ho convocato la tale – un’attrice abbastanza nota – viene in ufficio domani. E io non riesco a trattenermi, davanti a tutti mi scappa di dire: ma non c’entra, ha quasi trent’anni… e poi taccio, perché tutti mi guardano storto, per la serie “ma tu chi cazzo sei?”. Arriva l’indomani, arriva l’attrice – che non incontro – e nel pomeriggio dello stesso giorno scoppia una lite furibonda fra De Seta e il suo aiuto. De Seta, con quell’aria da bambino a cui hanno rubato la marmellata, si lamenta: perché mi hai fatto fare questa figura, ho dovuto dirle che non la prendevo per un fatto di età, a un’attrice conosciuta… E poi si guarda attorno: «Dov’è il ragazzino?». Quale ragazzino? «Quello là, il calabrese». Mi cercano, mi trovano in un’altra stanza. Arrivo davanti a De Seta, tremando. «Ieri hai detto che quella era troppo adulta, come facevi a saperlo?». Beh, rispondo, l’ho vista in fotografia. «E tu, Marina come te la immagini?». E lì, per la seconda volta, oso: «Un nome ce l’avrei, se posso… si chiama Rosemarie Dexter». Prendono nota. Poi Vittorio mi chiede: come la troviamo? «Non lo so, io ho una foto a Catanzaro… Forse, con qualche telefonata…». In due minuti trovano l’agenzia che la rappresenta, dicono che è libera, non sta lavorando, ma è a casa con la febbre. De Seta si fa dare l’indirizzo, la vuole vedere subito. Mentre sta per uscire dall’ufficio, si volta e mi chiama: «Vieni con me!». E così partiamo, lasciando l’aiuto regista esterrefatto e incazzatissimo.

Rosemarie Dexter aveva appena interpretato Giulietta in Romeo e Giulietta di Riccardo Freda, e tanti altri piccoli ruoli. Com’è andato l’incontro?

A meraviglia. Vittorio ne resta incantato: vede finalmente il suo personaggio in carne e ossa. Da quel momento mi mette a lavorare sul cast, a occuparmi dei piccoli ruoli. E poi, quando stanno per iniziare le riprese, chiama Mirta Guarnaschelli – allora moglie di Sergio Corbucci – che in quel momento era la più brava segretaria di edizione del cinema italiano. Mirta mi fa sedere di fronte e mi domanda: secondo te cosa deve fare la segretaria di edizione? Beh, dico: se io e lei stiamo parlando qui, vestiti così, e poi un mese dopo giriamo la scena in cui usciamo da questa stanza, dovremo essere vestiti uguali. Ma bisogna scrivere tutto, perché basta un giorno e te lo puoi scordare… Lei si alza e va da De Seta: «Ha capito al volo, prendilo». E sono stato scritturato come segretario di edizione. Mirta doveva solo farmi l’esame, e mi ha promosso in due minuti. Ma poi sul set ho fatto anche l’aiuto, perché Vittorio litigava con tutti e io ero quello pagato di meno, così mi ha tenuto fino alla fine.

Sei mesi di lavorazione. Quasi tutto il 1965. Quando è finito, ti sono arrivate altre proposte?

No, stavo a Roma, avevo finito i soldi, e sono dovuto tornare in Calabria senza sapere se e quando sarei ripartito. A San Pietro Magisano, qualche giorno dopo, ricevo un telegramma dall’organizzatore di produzione: «Combinato film Pasolini, torna subito». Corro a Roma e mi presento in un ufficio dove preparavano Uccellacci e uccellini. Lì incontro un certo Vincenzo Cerami, che nella competizione per il ruolo di assistente, mi batte: prendono lui. Resto a Roma, vado avanti come posso finché una sera ho in tasca solo 200 lire. Al cinema Libia, a due passi dalla pensione nel Quartiere Africano, danno Hatari!, l’ultimo film che avevo visto in Calabria prima di partire. Voglio rivederlo. Spendo 150 lire. Me ne restano 50. Quando torno alla pensione, mentre apro la porta, suona il telefono in corridoio. È Dario Di Palma, il direttore della fotografia di Un uomo a metà: «Domani alle 6 vieni a piazza Zama, suona al numero 38 dove abito io, ti porto a fare un altro film». Per arrivare a piazza Zama, che è a San Giovanni, chiedo qualche moneta in strada, ma ci arrivo. Il set è all’Eur, il film – Lo scandalo, di Anna Gobbi – è alla seconda settimana, ma serve una segretaria di edizione perché la titolare se n’è andata. Pagano poco, ma più di quanto prendevo prima. Un lavoro in serenità, e mi sento elevare quando cominciamo le riprese a Torre Astura, vicino ad Anzio. Lì ci sono Anouk Aimée e Philippe Leroy, i protagonisti. Il primo giorno, mangiamo tutti il cestino sulla terrazza. Si avvicina Anouk, che io nemmeno osavo guardare: «Tu non mangi l’insalata, posso averla io?», mi chiede. Le do l’insalata, lei mi dà il formaggio… e in quel momento mi sento parte della “grande famiglia del cinema”… Anouk era una star, ma col tempo le fui simpatico: volle che la macchina che la portava sul set prendesse e riportasse anche me, così potevamo chiacchierare di quel film o di quell’altro, io nel mio francese pedestre. Quando finisce Lo scandalo, Anouk mi fa: «Vuoi venire in Francia con me? Fra poco cominciamo a girare, senza un franco però, lavoriamo tutti gratis, il mio partner è Jean-Louis Trintignant, il regista ha fatto poche cose, ma ha talento. Ci divertiamo a farlo e anche tu ti divertiresti».

Che film era?

Un uomo, una donna. Claude Lelouch, un successo mondiale fatto senza un soldo di budget. Ovviamente non sono andato. Mi sarei dovuto pagare tutto, e non potevo permettermelo.

Quando avviene l’incontro con Lina Wertmüller?

Mi telefona di mattina presto, mi ordina di fare la valigia e di mollare la pensione in cui abitavo. Mi porta nella sua casa di Fregene, dove per tutta l’estate del 1966, e poi quella del 1967, faccio il “negro” per lei, scrivendo di tutto (anche testi di canzoni, ovviamente non accreditato) e lavorando come un operaio, dalle 8 di mattina fino a sera. Con lei ho girato due film come aiuto: Chimera e The Belle Starr Story, un western che poi è stato rieditato con il titolo Il mio corpo per un poker. Chimera invece è un “musicarello” con Gianni Morandi, che viene portato a termine da Ettore Fizzarotti. Dopo due-tre settimane Goffredo Lombardo licenzia Lina perché secondo lui il materiale è troppo sofisticato per il pubblico del cantante, e io ovviamente me ne vado con lei. La prima vera regia è un servizio per Sprint, che andava in onda sul secondo canale della Rai: Undici immigrati, sulla squadra del Catanzaro che stava salendo in serie A. In quegli anni la provincia di Catanzaro aveva 35.000 emigrati, ma i calciatori venivano tutti dal Nord. Grazie a questo servizio divento il cocco di Maurizio Barendson, direttore di Sprint, che mi commissiona altri lavori, tipo un ritratto di Nino Benvenuti dopo la vittoria su Emile Griffith. Tramite Barendson conosco Gianni Puccini, che mi prende come aiuto per un western, Dove si spara di più. Il film è girato in Spagna, e alla fine delle riprese passo direttamente sul set di Se sei vivo spara, il bellissimo western di Giulio Questi. Poi, sempre con Puccini, giro una brutta commedia con (incredibile!) la firma di Bernardo Bertolucci, Ballata da un miliardo, e I sette fratelli Cervi dove conosco Gian Maria Volonté. Nel 1969 lavoro come aiuto regista di Liliana Cavani in I cannibali, che è il mio ultimo film da aiuto.

Soffermiamoci un attimo sui western. Se sei vivo spara è giustamente un film-culto, un western violento e psichedelico assai superiore alla media dei western italiani di quegli anni. Come fu il tuo rapporto con Giulio Questi?

Sul set di Se sei vivo spara sentivo che stavamo facendo in tutto e per tutto un film d’autore. Ho conosciuto Giulio a Madrid, perché lui girava quasi contemporaneamente a Puccini. Con Giulio siamo diventati amici parlando di cinema, perché aveva una robusta cultura cinematografica e gli piaceva il cinema giusto, quello che piaceva anche a me. Stavamo nello stesso albergo, lui tornava dal suo set e io dal mio. Quando ho finito Dove si spara di più sono passato praticamente da un set all’altro. Poi ho fatto tutta la parte italiana, un lavoro pazzesco perché la produzione non pagava, se ne andavano tutti, e la prima ad andarsene era stata la segretaria di edizione. Un guaio grosso, perché i raccordi con il materiale girato in Spagna dovevamo ricordarceli a memoria…

Fu divertente girare i western in Spagna?

Francamente non lo ricordo come un periodo allegro. Giocavamo, sì, ma in modo molto serio. Sapevamo di non stare facendo Quarto potere, ma Questi voleva il massimo da ogni inquadratura, con mezzi irrisori puntava sempre al meglio. Posso testimoniare che Giulio non ha mai abbassato la guardia, a differenza di Puccini che l’ha abbassata subito, prima ancora di partire per la Spagna. Puccini purtroppo odiava i cavalli, gli facevano paura. Non voleva vedere il sangue, gli dava fastidio la polvere… Era l’uomo sbagliato nel posto sbagliato. Le cavalcate le ho riprese tutte io, e poi ho finito il film girando per una settimana intera, l’ultima, senza gli attori principali. Sia loro, sia Puccini se n’erano andati, però il film bisognava portarlo a casa: ma se non hai né il protagonista né l’antagonista, o ti impicchi o ti arrangi. Avevo girato una serie di cose fuori contesto, tanti primi piani “contro cielo”: sguardo timido, sguardo feroce, sguardo circospetto… cose che poi in moviola, con un montatore bravo, ti salvano. Il duello finale, canonico in ogni western, è tutto fatto di dettagli e dei suddetti primi piani. Dove si spara di più incassò 600 milioni, più di Se sei vivo spara, perché era un film meno sofisticato, più di serie. Se sei vivo spara è un film complesso e anche un po’ autocensurato, con situazioni non portate alle estreme conseguenze; ma con delle idee di regia e un montaggio di Franco Arcalli che lo rendono davvero speciale.

Il tuo ingresso nel cinema, arrivato veramente “dal basso”, testimonia di un’epoca del cinema italiano veramente sorprendente e affascinante.

Sì, però tengo a dire che non ero uno sprovveduto. Altrimenti non ce l’avrei fatta. Ero preparato e sveglio. Il tempo in cui rubavo i soldi per andare al cinema o comprare una rivista di cinema non era andato sprecato. Ho cominciato a leggere Cinema Nuovo a 12 anni. Magari mi fermavo alle stellette, per cui Sentieri selvaggi era una cosa media perché di stellette gliene davano solo due. Poi andavo a vederlo e pensavo: boh, io gliene darei quattro, ma chi sono io per contraddire un critico? Mi ha salvato Morandini con la rivista Schermi. Era un cinefilo aperto e non ideologico. Per alcuni un film sulla Resistenza era bello a prescindere. E un noir, magari, non valeva niente. Quando Morandini segnalò Assassinio per contratto, mi fece scoprire un grande regista. Uno degli incontri più emozionanti della mia vita è stato proprio con lui, Irving Lerner, in Spagna. Sul set un giorno Puccini stette male, e serviva un medico. A pochissima distanza dal nostro c’era il set di Custer, eroe del West, e io ero sicuro che gli americani un medico di scorta ce l’avevano. Scoprii che di medici ne avevano sei o sette, e pure un ospedale da campo… Mentre chiedo aiuto, mi rendo conto che il regista è Lerner, che dirigeva la seconda unità per Robert Siodmak. Per me era un mito, su quel set invece vedevo un omino chiaramente fuori posto. Quasi mi inginocchiai davanti a lui. E Lerner era più commosso di me.

Hai incontrato altri tuoi miti della vecchia Hollywood?

Sul set di Colpire al cuore, a Bergamo, alcuni amici di Milano mi portano Samuel Fuller. Grande emozione. Mi chiede di cosa parla il film che stiamo girando. Cerco di raccontarglielo, e lui mi dice: bello, ma il finale è sbagliato. Non lo deve denunciare, lo deve uccidere. Il figlio gli deve sparare, al padre… Resto di sasso. Ma l’incontro più “grande”, diciamo così, resta quello con Orson Welles all’Hotel Plaza di Madrid, assieme a Giulio Questi. Sapevamo che abitava là e la sera ci appostavamo per vederlo. Credo stesse finendo, o montando, Falstaff. Giulio si presentò umilmente: sono un regista italiano, sto facendo un western… E Welles sentenziò: «Nella vita di ogni regista ci deve essere un western». E ci offrì da bere.

L’intervista integrale con Gianni Amelio è stata pubblicata sul numero 605 di Bianco e nero, la rivista del Centro sperimentale di cinematografia a cura di Emanuela Martini e Alberto Crespi (Edizioni Sabinae). Il numero è stato realizzato in redazione da Alessandra Costa e per la grafica da Romana Nuzzo