Gennaio 1968. Poli, 40 chilometri a Est di Roma, due passi da Tivoli. Dino De Laurentiis e Silvana Mangano aprono agli amici Villa Catena per i 18 anni della figlia Veronica. Attori e registi girano in smoking nella dimora cinquecentesca. Alberto Sordi è la star della serata e distribuisce sorrisi e strette di mano. Il regista Mauro Bolognini si aggira pensieroso. Da alcuni mesi ripete i provini in cerca dell’attore protagonista del suo film Un Bellissimo Novembre, tratto dal romanzo di Ercole Patti che racconta la storia di un giovane nipote che si innamora di sua zia durante una vacanza in Sicilia. Per il ruolo di zia Cettina ha già scelto Gina Lollobrigida, il nipote (Nino) non si trova. Alla festa arrivano, timidi e defilati, due amici di Veronica, conosciuti in vacanza a Gaeta. Sono una coppia di studenti del Liceo Tasso di Roma: Paolo e Daniela. Bolognini avvicina il giovane Paolo, che di cinema sa poco e nulla. Dopo qualche minuto, Paolo torna da Daniela e dal suo gruppo di amici. Dice: “Bolognini mi ha chiesto di fare un film con Gina Lollobrigida e Gabriele Ferzetti”. Gli amici ridono divertiti, la vita di Paolo cambia strada. Inizia così la favola nascosta di Paolo Turco, a cui ieri ha reso omaggio il Molise Film Festival, con una serata a Casacalenda dedicata alla sua carriera, a un anno e mezzo dalla sua scomparsa.
Paolo Turco, l’attore studente
Una carriera atipica, che consuma la sua notorietà nel decennio tra il 1968 e il 1978 e poi approda al doppiaggio e alla direzione del doppiaggio per i successivi quarant’anni. Cinema, televisione, teatro: tra i venti e i trenta, Paolo Turco, attore per caso, è conteso tra i registi che negli anni Settanta scrivono la storia del cinema italiano.
Lo chiamano l’attore-studente. Figlio di un avvocato pugliese di Altamura, nipote di avvocati, mentre passa da un set all’altro e fa del cinema la sua professione, vola basso e continua a dare esami a Giurisprudenza. Dopo Un Bellissimo Novembre, Ettore Scola lo sceglie per un film-esperimento, Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat-nam, di cui ricorre il cinquantenario. La pellicola, in uno straordinario restauro a cura del Museo del Cinema di Torino e della Fondazione Cineteca di Bologna, è stata proiettata ieri al Cinema-Teatro di Casacalenda, alla presenza di Silvia Scola, sceneggiatrice e figlia del regista, Fabio Ferzetti, giornalista e critico cinematografico e Susanna Turco, giornalista e figlia di Paolo. Iniziativa specialissima, a cura del direttore artistico del Molise Film Festival, Federico Pommier, che quest’anno festeggia la sua ventunesima edizione (le prime furono a ridosso del terremoto molisano del 2002), inaugurata a inizio settimana dall’attrice Isabella Ragonese.
Il viaggio nel Fiat-nam
Nella pellicola di Scola, Paolo Turco interpreta Fortunato Santospirito, immigrato di origini irpine, partito da Trevico (città d’origine di Ettore Scola) per andare a lavorare alla Fiat. “Il film partì da un’inchiesta sulle condizioni degli immigrati meridionali a Torino negli anni Settanta, che mio padre condusse insieme a Diego Novelli, allora caporedattore della sede piemontese de L’Unità, che sarebbe poi diventato sindaco di Torino”, spiega Silvia Scola alla platea del Molise Film Festival. “Mio padre tornò a Roma molto scosso da quel lavoro e decise di farne un documentario drammatizzato, in sostanza un docu-film alla Michael Moore, diremmo oggi”, continua Silvia Scola. “Non trovò nessun produttore: contro gli Agnelli ti ci metti tu, gli dissero. Ad ogni no che riceveva si convinceva sempre di più che il film andava fatto. Così lo autoprodusse, usando i soldi del fratello medico, con un piccolo contributo di Unitelfilm, la casa cinematografica legata al Partito Comunista. Partì per Torino con un gruppo di cinque persone, tra cui Paolo. Il film fu girato nonostante gli Agnelli vietarono le riprese in fabbrica. Le scene di Fortunato in fabbrica, narrativamente, sono state sostituite da cartelli da cinema muto, sotto i quali in postproduzione sono stati aggiunti gli assordanti rumori della catena di montaggio. Per il resto, il film tiene insieme scene recitate da Paolo Turco e testimonianze raccolte nelle mense, nelle case alloggio, davanti ai cancelli della fabbrica. La protagonista femminile, Vicky Franzinetti, era una vera attivista di Lotta Continua”.
Il film ha avuto una vita complessa, con un vero e proprio boicottaggio della distribuzione, per cui riuscì a circolare solo nelle scuole, nelle feste dell’Unità, nei cinema d’essai e, per pochissimi giorni, al Quirinetta di Roma. Proprio per questo è diventato un cult, oltre a costituire un punto di svolta nella biografia di Ettore Scola, che dopo le riprese a Torino e il contatto con la sofferenza degli immigrati meridionali decise di iscriversi al Partito Comunista. “Si tratta di una storia incredibile del nostro Paese e non solo del nostro Cinema”, aggiunge Fabio Ferzetti. “Scola al tempo aveva già scritto Il Sorpasso, Dramma di Gelosia, Rocco Papaleo e, subito dopo, avrebbe girato uno dei suoi capolavori: C’eravamo tanto amati. Era nel pieno della sua potenza commerciale. Eppure nessuno volle produrlo, né distribuirlo”. La prova di Paolo Turco, poco più che ventenne, è tanto impegnativa quanto impeccabile. Molte scene sono girate a camera nascosta, quelle davanti alla fabbrica in cui Paolo-Fortunato si mescola agli operai durante il cambio turno sono un vero e proprio affronto agli Agnelli. E infatti il giovane attore viene spesso respinto ai tornelli dalla vigilanza interna.
Dal set al doppiaggio
Un’esperienza che ha segnato profondamente Paolo Turco, anche dal punto di vista politico. “Prima di Scola, Paolo era un ragazzo di Roma Nord, che davanti alle occupazioni universitarie voleva entrare in aula per dare gli esami. Dopo Torino la sua visione del mondo è cambiata”, spiega la moglie Daniela de Julio. “Scola lo ha strappato da un destino borghese. E lui non si è sottratto a questa esperienza non semplice. Come Ettore Scola, mio padre era un testardo, tignoso”, ribadisce la figlia Susanna. Che del padre racconta: “Il cinema lo ha rapito. È caduto nel cinema, senza sceglierlo. Per dieci anni è passato da un film all’altro, senza sosta”.
Dopo Trevico-Torino, è arrivato Pane e Cioccolata (1974) di Franco Brusati. Ancora una storia di immigrazione, ancora grandi partner: Nino Manfredi, Johnny Dorelli. E poi l’Orlando Furioso (1974) di Luca Ronconi per la televisione e Aiutami a sognare (1981) di Pupi Avati. Fino al musical Hair con Renato Zero, Loredana Bertè e Teo Teocoli. Il doppiaggio è stato la naturale evoluzione di questo decennio di fuoco. “Non lo ha vissuto mai come un ripiego. E quando è passato alla direzione del doppiaggio e ai dialoghi italiani ha potuto trasferire tutta la conoscenza che aveva raccolto sui set”, racconta ancora la figlia Susanna. “Aprì una sua società e gli attori si confrontavano con lui. Chiamavo a casa le grandi voci del doppiaggio italiano: Ferruccio Amendola, Claudio Sorrentino, Liù Bosisio. Io saltavo dalla sedia, ma lui non amava vantarsi. Non si scomponeva mai. Preferiva scherzare e sdrammatizzare un lavoro che aveva scritto il suo destino da solo, e che però ha amato moltissimo. Sino alla fine”.
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