“Sono molto contento, sono giornate campali. Ci sono tanti impegni e tante cose da fare, ma spero di godermi anche un po’ il momento”. A parlare è Antonio Pisu che, dopo essere stato in concorso alle Giornate degli Autori nel 2020 con Est – Dittatura Last Minute – torna nella sezione parallela di Venezia 80 con Nina dei Lupi (dal 31 agosto al cinema). Questa volta per animare le Proiezioni Speciali. Basato sull’omonimo romanzo del 2011 di Alessandro Bertante, il film racconta di un’improvvisa tempesta solare che rende inutilizzabile qualsiasi apparecchiatura elettronica sul pianeta. Quello stesso giorno, una neonata di nome Nina viene ritrovata sulla montagna nei pressi di un piccolo paese sperduto. Dopo il catastrofico e misterioso evento che tutti chiamano “la sciagura”, la civiltà come la conosciamo si sgretola, le risorse scarseggiano ovunque e tra gli esseri umani vige la legge del più forte.
In questa desolazione il paese di Nina resta però miracolosamente un mondo a parte, i suoi pochi abitanti vivono senza tecnologia e Nina cresce con un forte legame con la natura, che neanche lei stessa riesce a comprendere e che la porta a essere vista come strega per via degli strani fenomeni che accadono in sua presenza. Ma quando una banda di predoni invaderà il paese, decimando brutalmente la popolazione e soggiogando i superstiti, Nina adolescente riuscirà a fuggire nei boschi, a imparare la sopravvivenza in montagna e la convivenza con i lupi e a comprendere i poteri che ha dentro di sé.
Sara Ciocca è giovanissima eppure è già uno dei nomi più richiesti del cinema italiano. Era già nella sua mente quando ha iniziato a pensare al suo film?
Sono partito in maniera molto classica, facendo dei provini. Sara mi ha colpito immediatamente. Nella prima parte del processo, quando vedi tante persone, non c’è subito un incontro con il regista. Si tratta di una prima scrematura in cui gli attori mandano un video provino fatto da soli senza avere indicazioni. La profondità che aveva messo Sara e le sfumature date al personaggio erano tali che è come se avessimo parlato della cosa per mesi. Lei è un talento, questo credo che sia lampante a chiunque. Sono felicissimo di averla trovata. Il film si chiama Nina dei Lupi, ma senza Sara non ci sarebbe stata nessuna Nina.
Il romanzo di Alessandro Bertante nei temi trattati è attualissimo. Era uno dei motivi che l’ha spinta a prendere parte a questo progetto? Avere cioè la possibilità di giocare con il genere raccontando qualcosa che ci riguarda tutti?
In un mondo che si isola dopo una sciagura, qualsiasi essa sia, e che non ha nessun contatto col mondo esterno si crea all’interno un microcosmo di persone che fanno trasparire quello che sono realmente. Quindi la condizione di uno scenario post-apocalittico o distopico è una situazione estrema che ci permette di vedere realmente gli esseri umani. E come si comportano per sopravvivere. Magari erano avvocati, professionisti, commercialisti, eccetera. Però poi tutti pensiamo alla sopravvivenza in un determinato contesto. Questo è quello che mi è piaciuto.
E la sua attinenza al presente?
Il fatto che si crei un piccolo microcosmo all’interno di una cittadina con quest’ansia del non sapere se fuori il mondo è ripartito o non è ripartito, inevitabilmente fa pensare a quello che abbiamo vissuto. Anche se in maniera diversa perché chiaramente il romanzo è stato scritto dieci anni fa. Però era interessante raccontare una storia fantasy che allo stesso tempo avesse una sfaccettatura di visione della società.
Ha fatto delle ricerche per raccontare una società collassata e rimanere plausibile nel mostrare qualcosa che non abbiamo vissuto direttamente ma che potrebbe accadere?
Abbiamo cercato di essere il più originali possibili nella sceneggiatura. C’è un aspetto che si discosta dal libro. All’interno del romanzo c’è questo morbo, chiamato “la sciagura”. Non volevamo fosse un morbo vero e proprio perché è una cosa che abbiamo già visto in altri film. Ci siamo chiesti: “Ma qual è oggi la situazione di cui siamo schiavi che permetterebbe un collasso della società?”. Ed è la tecnologia. “Cosa potrebbe interromperla?”. Abbiamo fatto delle ricerche e ci siamo avvalsi della consulenza di un professore per capire le conseguenze di una tempesta solare. Oggi qualsiasi apparecchiatura elettronica è parte del nostro quotidiano, a partire dalle automobili, dai telefoni o da una porta scorrevole. Se smettessero di funzionare per un lasso di tempo anche di sole tre settimane ci sarebbe un crollo, con la gente che sfonda le case di altri per trovare da mangiare.
In quest’ottica il film, anche se le tematiche che lo muovono non sono le stesse, riporta alla mente titoli come The Walking Dead o The Last of Us. Era interessante per lei mostrare come un evento estremo faccia cadere le maschere imposte dalla società?
Come qualsiasi pellicola tratta da un romanzo non c’è il tempo fisico in novanta minuti di raccontare tutto quello che probabilmente c’è in un libro. Questo film ha molti protagonisti, non solo Nina. E sarebbe stato molto interessante vedere come era la loro vita prima e vedere perché è diventata così. Questo oggi lo permette solo la serialità o una saga come Harry Potter o Hunger Games. C’è bisogno di più tempo per raccontare in maniera approfondita tutto questo. Nel film abbiamo dovuto mettere il focus sulla storia di Nina. Abbiamo deciso e voluto che fosse quella la storia principale perché altrimenti si divagava troppo e si rischiava di raccontare tutto e niente.
Nina dei lupi racconta il legame tra gli esseri umani e la natura. Qualcosa che, in questi ultimi anni, grazie anche a una maggiore consapevolezza rispetto ai cambiamenti climatici, stiamo recuperando. Ma come possiamo raggiungere dei risultati se spesso chi ci governa tende a minimizzare?
Non so se ho una risposta, anche se mi piacerebbe averla (ride, ndr). La cosa che mi rende felice è che vedo come le persone siano più consapevoli. Siamo tutti molto più attenti a quello che mangiamo, da dove arriva. Le persone ci mettono attenzione, chi ci governa finge di metterci attenzione. Come fare? Non lo so. Come diceva mia mamma: “Se vuoi dio te lo devi pregare da solo”. Alla fine della fiera ognuno di noi dovrebbe fare il proprio, perché se aspetti che qualcun altro lo faccia per te diventa molto, molto duro.
Come avete lavorato sugli elementi fantasy del film?
Gli effetti speciali visivi sono di Nicola Sganga, che ha già lavorato con Matteo Garrone ne Il racconto dei racconti vincendo un David di Donatello. Ovviamente era un concept da creare da zero. Lo abbiamo inventato noi e dietro c’è stato un grosso lavoro che si è protratto non solo durante le riprese e in post-produzione ma che è partito da molto prima. Abbiamo ipotizzato come realizzare le macchie nel cielo ma anche l’estetica fotografica del film stesso. I miei riferimenti erano The Road di John Hillcoat e I figli degli uomini di Alfonso Cuarón.
Nell’ottica di costruire il mondo post-apocalittico del film, che approccio c’è stato ai costumi?
Li ha curati Magda Accolti. È già il terzo film che faccio con lei. Quello che volevo, anche in questo caso, era dare l’impressione che i vestiti sono quelli che trovi: una felpa, un giaccone, gli scarponi, i jeans. Come se fossero vestiti a strati. Gli abitanti del paese, invece, si differenziano perché hanno modo di conservare meglio gli abiti potendoli lavare al fiume. Ma sia loro che chi arriva da fuori sono vestiti di quello che capita. Non c’è distinzione tra uomo e donna. Abbiamo puntato tutto sulla credibilità ma anche sulla logica di quello che accadrebbe.
Girare nel paesino e in mezzo alla natura nel bosco è stato complicato?
Dal punto di vista tecnico complicatissimo. Per far arrivare i mezzi tecnici, per trovare quella casa nel bosco non ha idea di quanto ho girato (ride, ndr). Oggi provate a cercare una casa nel bosco dove non c’è nessuno intorno. Non esiste. È pieno di B&B. Chiaramente la Trentino Film Commission ci ha aiutato a cercare la location. Il lavoro poi è stato fatto di scenografia per gli interni. Non finirò mai di ringraziare il lavoro che fanno i tecnici, perché poi quello che si vede nel fotogramma è sempre merito di tutti. Mai di una persona sola. Il cinema è un lavoro veramente di squadra.
Il film suggerisce che la natura continua, nonostante il mondo collassi. È l’uomo che entra in crisi. Lo abbiamo visto anche noi stando chiusi in casa due anni.
Esatto. Abitavo in una zona di Milano dove, dopo un anno di lockdown, quando siamo usciti avevamo intorno conigli e animali selvatici. Se smettesse davvero di funzionare tutto quello che è tecnologico, la natura si dimostrerebbe molto più resistente. Noi siamo di passaggio. Basta fare un calcolo da quanti miliardi di anni esiste il nostro pianeta e da quanto tempo ci siamo noi. È un lasso di tempo ridicolo.
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