Questa intervista a Paola Cortellesi è pubblicata nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore. Paola Cortellesi è presente alla Festa del Cinema con la sua opera prima C’è ancora domani.
“Roma dal Gianicolo è una cosa che ti emoziona”. Paola Cortellesi è un po’ così, la gatta “sui tetti” della città eterna che scotta. L’attrice romana, nata “ai bordi di periferia”, cantava nel 1986 Eros Ramazzotti, ha guardato spesso la capitale dall’alto nei film in cui è stata protagonista. Che fosse l’Eur di Sotto una buona stella (2014) di Carlo Verdone – nonostante le location ricostruite in studio – o il quartiere popolare di Quarticciolo per Nessuno mi può giudicare (2011) di Massimiliano Bruno. A suo modo l’ha anche riqualificata questa città, come con Corviale in Scusate se esisto! (2014), diretto dal compagno di vita Riccardo Milani. Per la sua opera prima da regista, scritta assieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda, Paola Cortellesi scende le scale. Arriva al pianterreno, uscendo dal portone per abitare i cortili e le piazze, luoghi della convivialità della Roma anni Quaranta, nonché della città di C’è ancora domani. Film in bianco e nero, come i ricordi quando tornano alla memoria. E che apre la 18esima edizione della Festa di Roma.
C’è ancora domani è il suo debutto alla regia. Ha scelto Roma come palco. Un caso o una necessità?
È stato naturale. La storia del film è inventata, ma c’è moltissimo dei racconti della mia famiglia. Sono per metà romana e per metà abruzzese. Mia madre venne a Roma a sei anni, ha trascorso qui la sua primissima infanzia. Ma molte delle storie da cui ho tratto ispirazione sono di mia nonna. È anche il motivo per cui ho immaginato l’opera in bianco e nero. Quando ti tornano in mente le immagini del passato non sono mai a colori.
Quali sono i posti che vivono i suoi personaggi?
I cortili. I cortili romani in cui tutto veniva messo in piazza. Si viveva insieme, non c’era discrezione, però era bello. La Roma di C’è ancora domani è molto lontana dalla Roma di oggi. Sfido chiunque a dirmi se i suoi vicini sono simpatici o meno, semplicemente perché non ci si conosce. Mio padre è nato dietro Piazza Navona, che al tempo era un quartiere molto popolare, dove le persone parlavano urlando tra di loro dalle finestre. La vita sociale era diversa. Forse le famiglie borghesi erano le uniche discrete.
Una divisione, tra popolare e borghese, che ha affrontato in Come un gatto in tangenziale.
Sì, e nel film dove recito accanto ad Antonio Albanese abbiamo messo in scena un’incomunicabilità totale, che rappresenta la differenza di ceto sociale a Roma, come nel resto di Italia. Roma, però, non è solo un bacino. Roma è tante cose. C’è la Roma del centro, la Roma dei quartieri bene, poi c’è la Roma popolare, quella delle periferie, delle borgate.
Qual era la Roma della sua infanzia?
Quella che racconto attraverso i film. “A Roma c’è tutto”, diceva Anna Magnani nel capolavoro Nella città l’inferno. A Roma c’è tutto e il contrario di tutto. Sono cresciuta nella borgata Massimina, nel quartiere Aurelio, verso Montespaccato. Hanno sempre dei nomi fantastici i quartieri di Roma. Preludono una tragedia latente. Non è meraviglioso?
Un pizzico di tragedia c’è anche nell’aria allegra della sua pellicola. Il protagonista interpretato da Valerio Mastandrea era il tipico uomo romano?
Valerio ha accolto il progetto dal primo racconto. Il fatto che abbia accettato di partecipare è un grande attestato di stima. Volevo che il suo personaggio rappresentasse l’uomo quotidiano. Una figura talmente infame che solo un attore coraggioso e capace come lui poteva interpretare. Perché, in verità, l’uomo che mette in scena non è un mostro. È un uomo normale. Un uomo normale che si comporta da mostro perché così gli è stato insegnato.
Se Mastandrea è uno dei volti del cinema romano e italiano di oggi, quali sono quelli della sua formazione?
Anna Magnani, per l’appunto. Alberto Sordi, che ha rappresentato l’italiano per eccellenza, quello medio, facendolo amare per i suoi difetti. È stato rivoluzionario. E poi Gigi Proietti. A casa mia era un’istituzione. Ogni volta che faceva uno spettacolo al Teatro Sistina andavamo a vederlo con tutta la famiglia.
Invece le sale cinematografiche? Ne ha alcune a cui è legata?
Ho una sala del cuore, che però non esiste più. È il cinema Garden, in viale Trastevere. Ricordo quella volta in cui costrinsi mio nonno a prendere l’autobus e ad attraversare tutta Roma per andare a vedere Rocky IV. Da Massimina a Trastevere. Ora è diventato un Bingo. E poi il cinema Metropolitan all’inizio di Via del Corso, vicino a Piazza del Popolo. Andammo tutti insieme con la mia famiglia per E.T. – L’extraterrestre, ma la sala era talmente piena che vedemmo tutto il film seduti sui gradini.
Cosa le manca di quelle sale?
Che quando arrivavi in ritardo per il film potevi recuperare l’inizio con la proiezione successiva. C’erano intere pellicole di cui perdevi l’attacco, capivi in corsa di cosa parlavano e, solo alla fine, recuperavi l’inizio.
Dove ha fumato la sua prima sigaretta?
Nel mio quartiere, in una pizzeria durante una cena della terza media.
E il primo bacio?
Sempre nel quartiere. Il fatto è che non ci si allontanava moltissimo. Quando sei in periferia il centro ti sembra irraggiungibile. Oggi con la macchina quanto sono, dieci o quindici minuti? Le gite fuori porta erano quelle di mio padre che ci portava a vedere la sua vecchia casa dietro Piazza Navona.
Quando ha cominciato a vivere di più la città?
Con il liceo. È anche quando ho deciso che avrei abitato nel mio quartiere attuale, Monteverde. Mi piace l’idea di poter vivere in un posto in cui se scendo c’è il supermercato, il parco, c’è il bar. E magari al bar c’è Simone, tipica persona con cui intrattenere conversazioni lunghe il tempo di bere un caffè e con cui parli di tutto e di niente. In un altro quartiere non lo so se ritroverei, magari dovrei prendere la macchina…
E prendere la macchina, a Roma, non è facile. Di solito si critica sempre l’amministrazione della Capitale. Ma nessuno vorrebbe mai esserne il sindaco.
Infatti, nemmeno io. È una metropoli enorme, l’unica in Italia dove è difficile trovare un taxi o prendere un autobus in tempo. Ed è sporca quanto Caracas. Se dovessi farlo, però, so che la parte più importante sarebbe scegliere la squadra giusta. Come per fare un film.
Dove ha visto l’alba o il tramonto più bello di Roma?
Dal Gianicolo. Ma non solo il tramonto, o l’alba. Il Gianicolo è mozzafiato a qualsiasi ora. È la cosa più vicina alla poesia. Si respira il carattere dei cittadini romani: gioioso, ma in fondo disilluso. È nella natura di Roma. Una città che crea dipendenza. E, come tutte le dipendenze, ti rende pazzo.
E se ne andrebbe mai?
No. Mai.
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