Ci sono cineaste che sono uniche non per vocazione o volontà, ma per inevitabilità. Roberta Torre non si è mai sforzata di essere un’outsider, di guardare il mondo da un’angolazione diversa, l’ha sempre trovato naturale. E ora che al cinema propone la sua visione del mondo, della vita, dei sentimenti da 25 anni non è cambiata. O forse sì, ma solo perché lo ha fatto il mondo attorno a lei e per rimanere coerente con te stessa, di questi tempi, devi saperti rivoluzionare. Lei che ha saputo sempre stupirci, dagli inizi con Tano da Morire e Sud Side Stori fino a Riccardo va all’inferno e Le favolose, passando per il bel libro romanzo Strana Carne (ed. Fandango Libri)
Il suo Mi fanno male i capelli, ancora in sala, ha conquistato una nicchia di pubblico affezionata ed emozionata, oltre che il premio Monica Vitti alla Festa del cinema di Roma, vinto da Alba Rohrwacher. È vero, fa un po’ Inception il premio Vitti dato a un’attrice che impersona i personaggi resi celebri da Monica Vitti per un film che ha nel titolo la battuta più celebre mai pronunciata da Monica Vitti. Ma lo meritava lo sforzo bello ed elegante di quest’attrice che si è affidata alla sua regista ed entrambe, insieme, hanno saputo raccontare una storia dolce e difficile, a suo modo dura e tenerissima, “sulla potenza del cinema e dell’amore”.
Qual è la scintilla da cui parte Mi fanno male i capelli?
Ma guarda, in realtà sono molti anni che lavoro sulla memoria: anche il film precedente, Le Favolose, parlava di questo, dei nostri fantasmi e di come dialogare con loro. E poi scavando nelle storie di personaggi famosi mi ero imbattuta in quella di Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols, che a un certo punto lascia tutto per prendersi cura della moglie malata di Alzheimer. Lui, il punk, quel Johnny Rotten. Mi spiazzò, mi colpì tantissimo, anche per tutto ciò che ha rappresentato, immaginarlo completamente dedicato alla battaglia della sua compagna.
E poi mi hanno lavorato dentro le parole di Monica Vitti stessa, che da giovane scriveva “io vorrei perdere la memoria”. Ed è un pensiero strano per un’attrice, che con essa lavora, che deve mandare a mente chissà quante parole, copioni, storie. Eppure lei aveva questo rapporto particolare, conflittuale, purtroppo preveggente con la memoria.
Questi due semi sono germogliati dentro di me e sono diventati una storia: mi è da subito piaciuta l’idea di una donna che perdeva la memoria ma riacquistava quella del cinema, di altre vite. Lei riempie la sua identità, che si va perdendo, di personaggi che ama profondamente.
Un’idea bellissima e rischiosa dal momento che accarezza così da vicino quella che era la realtà della grande Monica Vitti negli ultimi decenni. Una donna persa dentro chissà quali mondi.
Hai ragione, ma non ho mai voluto fare una biografia, un biopic. La protagonista non è Monica Vitti, deve essere chiaro. Questo è un film sul potere del cinema e dell’amore, sull’identità e su quanto sia importante l’altro per custodirla, è un gioco di sguardi. C’è un’altra frase bellissima, vera, struggente e a suo modo spietata che mi ha colpito nelle mie ricerche, la frase del marito di Monica Vitti, una delle poche che ha detto in tutti questi anni di silenzio, di privacy protetta con devozione, e dice “lei non sa più chi è, ma io sì”.
Parole piene di tenerezza che ti dicono che tu sei, esisti anche in rapporto a chi sei per gli altri. Se gli altri ti perdono, tu stesso ti perdi. Se invece vieni ricordato, allora esisti. E se vogliamo il contatto più forte con la realtà della vita di Monica Vitti, se proprio vogliamo vederlo nel film, è proprio questo amore che diventa tutela totale, solidarietà al limite dell’abnegazione e dell’autolesionismo, seguire la persona che ami nel suo immaginario, non frenarla ma anzi accompagnarla nel viaggio in cui si perde per ritrovarsi. L’unico modo per continuare a vivere insieme, ad amarsi, a condividere un’esistenza. Anzi, tante esistenze. E mi piace tanto questa figura maschile così anticonvenzionale e protettiva ma non paternalista. Che è disposta a seguirla nei suoi viaggi, dovendo vivere il dolore della realtà parallelamente. Una figura eroica e dolcissima.
Il lavoro con Alba Rohrwacher com’è stato?
Meraviglioso. Lei è straordinaria, un’attrice come non ce ne sono. Anche per l’approccio, per il modo di lavorare, unici. E mi piace sempre, quando possibile, lavorare con talenti come il suo e provare a portarli altrove, dove non sono mai stati. Qui doveva assolutamente entrare in una dimensione che non era quella della tecnica attoriale, non aveva nulla che fare con il suo passato. Qui non c’era da fare un lavoro emulativo e neanche di perfezione interpretativa. Doveva anzi giocare sulle crepe, sulla goffaggine, sulla tenerezza, su una fragilità che fosse anche gioiosa, bambinesca, non dolente, disperata, depressa, perché non era quello che volevo.
Io volevo una bambina, delicata e divertita, la mia protagonista è felice di questo gioco, di questo altro mondo che sta vivendo, di queste nuove amiche. Lei sta bene, semmai è lui che soffre perché ancorato alla realtà.
Le ha dato dei riferimenti?
Non c’erano riferimenti, perché volevo che lavorasse lontano da Monica Vitti, ma sulle caratterizzazioni di certi personaggi, ma dal punto di vista della protagonista. E così, sembra incredibile, ci siamo rivolte non di rado all’improvvisazione, mi capitava di darle delle indicazioni magari parlandole all’orecchio all’improvviso, in modo estemporaneo, dicendole delle cose, dei toni, delle frasi che lei poteva pronunciare. Tutte le battute che lei dice sottovoce, tra sé e sé, con l’idea del parlare da sola, non erano in sceneggiatura: è una suggestione nata sul set.
Se si pensa anche al suo passato, gli attori con lei fanno sempre viaggi nuovi rispetto alla loro carriera
A me piace lavorare con gli attori, amo il loro lavoro, vedo quello che possono dare, forse, prima che lo capiscano loro stessi. E penso che quando sono generosi e coraggiosi come Massimo Ranieri o Alba Rohrwacher o Sonia Bergamasco, una Regina madre maestosa in Riccardo va all’inferno, ripensando a tre dei miei ultimi protagonisti, quando lo sono così tanto da mettere la loro storia da parte e affidarsi a me, il minimo che io possa fare è portarli fuori da qualsiasi comfort zone.
E come fa?
Voglio stupirmi io per prima, voglio che loro vedano con me gli altri tasti, gli altri colori che hanno e non hanno ancora inutilizzato. Amo lavorare su ciò che è inespresso, ma che gli appartiene profondamente.
Per me Alba ha una parte bambina bella e sfaccettata, anche se non ha permesso all’attrice di percorrerla in questi anni e in molti non gliela sospettavano, così come Massimo ha un lato dark che lui stesso non ha mai esplorato, perché ha giocato su altri toni, su altre melodie, ma che a me è parso subito evidente. Provo a essere, quasi fossimo in una seduta psicanalitica, una regista maieutica.
Per lei cos’è la memoria invece?
Allora diciamo che la memoria per me è legata molto a qualcosa di irrazionale, in maniera strana. D’altra parte più vado avanti con gli anni, più mi accorgo di avere bisogno di fare un lavoro storico di cui fino a questo momento non avevo mai sentito la necessità.
Il viaggio della memoria è uno strano rapporto a tre tra la storia che hai vissuto, l’epoca che hai attraversato e i frammenti irrazionali, le madeleine, che ti arrivano violente, proustianamente, addosso quando mangi una cosa, senti un sapore, i tuoi occhi sono colpiti da una certa luce che magari entrava, identica, nella tua camera di bambina. In più credo che viviamo in un momento storico, purtroppo, in cui la memoria, storica, collettiva ma anche individuale, si sta distruggendo. Ovunque, anche nel cinema si tende a dimenticare, rimuovere, si ha paura del passato. Probabilmente di quello che potrebbe dirci di noi, degli errori che stiamo facendo e che potremo evitare. Non lo so.
Nasce anche da questa paura, da questa distruzione il desiderio di fare questo film?
Da regista, chissà, ho voluto anche dare un ultimo saluto a un cinema che sta scomparendo: parlare con Monica Vitti, con Alberto Sordi, con Marcello Mastroianni, concedermi un gioco meraviglioso. Prima che a farlo sia l’Intelligenza Artificiale, prima che se ne possa appropriare e metterci a confronto con la nostra memoria in un modo che potrebbe non piacerci.
Insomma un tempo lei arrivava a rompere ogni schema del cinema italiano, ora lo recupera.
Arriva il momento in cui per rimanere in controtendenza sei tu a dover cambiare direzione. Forse negli anni ’90 era giusto rompere, ora è più rivoluzionario recuperare ciò che il mondo sta distruggendo.
Anche il prossimo film lavorerà sul concetto di memoria?
Sto facendo un progetto, tratto da un libro della grande attivista e scrittrice trans Porpora Marcasciano, che racconta la storia d’Italia a partire dagli anni 50, quando nasce lei fino agli anni 90. L’Italia vista attraverso gli occhi di una specie di Alice nel paese delle meraviglie, dal punto di vista marginale del movimento trans. Quindi sì, pure questo, come vedi, è un lavoro sulla memoria.
In più lei ha girato il suo repertorio, fin da quando era molto piccola e nelle sue riprese ci sono cose meravigliose, un’Italia raccontata nei locali di notte, attraverso i suoi incontri, con personaggi oggi famosissimi e che erano ai primordi, semplici e allo stesso tempo splendide presenza notturne
Scola, Bertolucci, Leone. Alla fine ci cascate tutti nella storia d’Italia vista attraverso una vita o una famiglia.
Sono sincera io non ho mai avuto una grande passione per la storia, non l’ho mai amata particolarmente, ma arriva una certa età in cui hai bisogno di capire. E chiaramente ognuno si sceglie il suo Virgilio, ovviamente il mio è diverso da quello di Scola, da quello di Bertolucci perché lo sguardo è diverso però è come se ognuno poi avesse bisogno di qualcuno che ti porta indietro nel tempo e ti fa vivere gli anni in cui tu magari hai vissuto inconsapevole delle cose. E solo così riesci a rimetterle in ordine. O almeno a riscoprirle.
Monica Vitti non ha eredi. Sembra dircelo anche il suo film. Perché?
Quelle come lei sono pezzi unici, parliamo di miti che diventano archetipi, e viceversa. Lei è come Marilyn, sono figure luminose e irripetibili, e pure un prodotto di quell’epoca, in cui comunque potevi anche essere scorretto, dire delle cose terribili, prenderti a schiaffoni con il tuo partner sullo schermo. Erano mondi che ora non sarebbero più riproducibili
Manca un po’ quella libertà d’espressione e di provocazione?
Certo che sì e non perché uno non possa rimanere scorretto dentro, ma è la società a non accettarlo più, se pure metti in scena qualcosa che rompe questa correttezza solo apparente, non viene recepita per ciò che è, c’è subito il naso arricciato e un artista non può prescindere dal mondo, dal pubblico che ha davanti, deve per forza farci i conti. E non ha senso fare, dire certe cose, se poi vengono fraintese o percepite male.
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