Dieci anni di Smetto quando voglio. Dieci anni che rimpiangiamo di aver preso la laurea, ma davvero, scusateci, è stato un errore di gioventù.
Dieci anni di “il cinema italiano sta cambiando” e forse, solo forse, lo ha fatto davvero in quel momento di volta che è stato il 2014, prima col film d’esordio di Sydney Sibilia – a cui è seguita nel 2016 l’avventura produttiva di Groenlandia con Matteo Rovere, cominciata con l’opera dei The Pills e seguita a stretto giro dal sequel Smetto quando voglio – Masterclass – per continuare nel 2015 col supereroistico Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti.
Smetto quando voglio, quando tutto è cambiato
Nell’elettricità frizzante che si percepiva nell’aria del nostro panorama, e che grazie al cielo è rimasta più o meno invariata nel decennio successivo, l’opera del novello Sibilia aveva mescolato la raffinatezza della commedia d’autore insieme al riso amaro che tanto aveva fatto urlare a un ritorno allo stile del genere “all’italiana”.
Una salsa remixata, sketch e siparietti che non tralasciavano né la freschezza della sceneggiatura – dialoghi sferzanti annessi – né una montatura tra regia, colori e scenografia, che ci ha fatto aprire gli occhi, come illuminati da una scioccante rivelazione: non è che in Italia non sapevamo curare la messinscena, è che per tanto tempo si era deciso di non farlo.
Dietro a ogni passo della sgangherata banda – composta da Edoardo Leo, Stefano Fresi, Pietro Sermonti, Valerio Aprea, Libero Di Rienzo, Paolo Calabresi e Lorenzo Lavia – c’era un ragionato senso estetico. Il giallo e il verde acido della fotografia di Vladan Radovic, il ritmo sincopato e sferruzzato del montatore Gianni Vezzosi.
Le musiche di Andrea Farri scandiscono il tempo cadenzato contro cui i protagonisti corrono, inediti soliti ignoti che hanno creato un ponte tra passato e presente, proiettandoci verso ciò che volevamo dal cinema del (prossimo) futuro. Una serie di citazioni cinematografiche, che facevano esclamare a propria volta al pubblico: “Si può fare!”.
Il Breaking Bad della Cassia Bis
Se i personaggi erano “le migliori menti in circolazione” costretti a vivere “ai margini della società”, a dieci anni di distanza sono anche il miglior cinema italiano datoci dal duemila. È l’heist movie che Steven Soderbergh avrebbe girato se fosse nato a Roma Sud, è Breaking Bad se il camper di Walter White avesse messo le quattro frecce ai lati della Cassia Bis.
E che comunque si era aperto a tutto il territorio della penisola, con un particolare focus sulla capitale, la cui originalità aveva però sconfinato, conquistando regione per regione. Non fermandosi a una sola opera, ma dando vita ai seguiti Masterclass e Ad honorem, con uno dei più riusciti villain moderni, il Walter Mercurio di Luigi Lo Cascio (non a caso sarebbe diventato più in là The Bad Guy), e la più divertente scena di assalto al treno che nemmeno Sergio Leone avrebbe potuto immaginare.
L’unica cosa ad essere rimasta invariata, ad oggi, è la precarietà che spinse i personaggi di Smetto quando voglio a diventare criminali, usando la loro intelligenza e tutti gli strumenti necessari per la vendita delle smart drugs. L’instabilità che la gang di Sibilia – alla sceneggiatura e al soggetto con Valerio Attanasio – ha raddrizzato e con cui ha riparato il tessuto dell’industria del cinema italiano. Meno quello sociale, ma se una laurea non può fare un miracolo, sarebbe troppo chiederlo a un (bel) film.
In occasione dei suoi dieci anni, Smetto quando voglio torna stasera in tv su Rai 3, in prima serata, dalle ore 21.20.
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