Torna in sala restaurato L’odore della notte, secondo e già penultimo film di Claudio Caligari. Torna per pochi giorni uno dei film più duri, spiazzanti e incompresi del nostro cinema di fine millennio. Torna un grande autore che alla sua morte fu lodato e addirittura beatificato senza vergogna da tutti quelli che avevano passato la vita a tenerlo in un angolo, marginale, invisibile perché non addomesticabile, dunque castrato da un sistema che ha sempre visto un certo tipo di registi come fumo negli occhi e ha fatto di tutto per rendergli la vita impossibile. Riuscendoci, purtroppo.
L’emozione della riscoperta e la smemoratezza in cui siamo avvolti genera enfasi, celebrazioni, affiliazioni improbabili, ma anche inesattezze o deformazioni più o meno inconsapevoli. Per cui ci permettiamo di aggiungere qualche nota personale, da testimoni diretti. Tanto per non dimenticare la solitudine, gli ostacoli, le mille difficoltà che Caligari dovette superare per realizzare i suoi film. Da eterno outsider, estraneo a tutte le logiche e le leggi non scritte che regolano e regolavano il funzionamento del cinema in Italia. Anche se i suoi personalissimi noir metropolitani, amaro paradosso, avrebbero aperto strade poi percorse in chiave ben diversa da un gran numero di altri autori e produttori.
Caligari al Festival di Venezia
L’odore della notte partecipò alla 13ma Settimana della Critica di Venezia, la cosiddetta SIC, nel 1998. All’epoca infatti la SIC non era riservata ai soli esordienti, come sarebbe purtroppo accaduto in seguito (un errore strategico che avrebbe limitato drasticamente il bacino di ricerca e l’impatto della sezione autonoma gestita dal Sindacato Critici), ma ammetteva opere prime e seconde. Portare a Venezia la seconda prova dell’autore di Amore tossico, figura già leggendaria anche se dopo quel film in tutti i sensi unico (prodotto solo grazie all’aiuto di Marco Ferreri) se ne erano perse le tracce, sembrava un’occasione da non perdere.
Eppure, non me ne vogliano gli amici con cui ho diviso quattro anni di scoperte e allegria, ancor prima di sbarcare al Lido L’odore della notte spaccò in due la commissione di selezione. Ad essere subito convinta fu solo l’ala diciamo centro- meridionale, conquistati da quel film incandescente e spericolato; forse anche perché più vicini, proprio per ragioni geografiche e culturali, al microcosmo criminale messo in scena da Caligari conciliando puntualità antropologica e accensione visionaria.
Ma come avremmo ben presto capito la nostra divisione anticipava con impressionante esattezza l’accoglienza che il film avrebbe ottenuto al momento dell’uscita. Scettici, schizzinosi se non apertamente ostili i critici dell’Italia settentrionale. Sedotti e conquistati dal ritorno di quel solitario campione di un cinema fieramente antagonista i commentatori da Roma in giù.
Il ruolo di Valerio Mastandrea
Come se solo i secondi avvertissero la verità dell’ambientazione e l’urgenza di quella forma tardo-brechtiana sfacciatamente, pericolosamente a cavallo tra Scorsese e Pasolini. Così pericolosamente che Caligari dovette aspettare altri 17 anni per tornare sul set con quello che sarebbe rimasto purtroppo il suo ultimo film, Non essere cattivo, presentato postumo sempre a Venezia nel 2015, e prodotto solo grazie all’insistenza e alla lungimiranza di Valerio Mastandrea.
Che per scuotere la prolungata, deliberata indifferenza del sistema-cinema italiano nei confronti di Caligari scrisse addirittura una “Lettera aperta a Martin Scorsese” pubblicata sempre dal sottoscritto sulle pagine del Messaggero.
Il resto è storia, come si dice in questi casi, e anche un pò leggenda. Ma con le leggende è sempre bene andare cauti, malgrado l’abusata battuta de L’uomo che uccise Liberty Valance (“Quando la leggenda supera la realtà, stampa la leggenda”). In Italia infatti, paese cattolicissimo e non nel senso migliore, l’opera postuma funziona sempre, assicurando il paradiso al defunto e la remissione di ogni peccato ai suoi nemici, pronti a lodarlo da morto dopo averlo avversato in tutti i modi da vivo. Senza neanche fare troppa fatica,
perché per combattere Caligari e il suo talento non riconciliato bastava ignorarlo, respingere o lasciar cadere i suoi numerosi tentativi di tornare sul set.
E magari tenerlo accuratamente lontano da un film e poi da una serie che sembravano fatti apposta per lui: parliamo di Romanzo Criminale. Caligari cercò infatti in tutti i modi di entrare nel progetto, ma non strappò nemmeno uno strapuntino. Lui stesso aveva tentato di comprare i diritti del romanzo con Valerio Mastandrea, come disse in un’intervista a Christian Raimo, ma inutilmente. Lo stesso Mastandrea fu tenuto fuori dal film, che avrebbe inaugurato un filone di grande successo virando in chiave spettacolare e in fin dei conti inoffensiva gli ambienti e i personaggi esplorati da Caligari.
Addio dunque alla potenza eversiva di quel piemontese trapiantato nello sconfinato hinterland capitolino che “avendo abitato in vari inferni”, parole sue, aveva colto l’anima delle borgate romane assemblando zone diverse in un’unica periferia, immaginaria ma più vera del vero. Quella da cui nasceva la disperazione “prepolitica”, dunque ancora più inquietante, del poliziotto- rapinatore interpretato da un giovane Mastandrea ne L’odore della notte.
L’importanza di Caligari
Per questo, oggi che tutti i gatti sembrano grigi, bisogna ricordare la differenza fondamentale che separa il lavoro così isolato e insieme così seminale di Caligari da quello di tanti suoi apparenti epigoni. Ancor prima della sua bravura, e della perseveranza con cui seguiva un progetto per anni e anni, dietro ai suoi film c’era un lavoro certosino di osservazione e di scavo. Lo ricorda lui stesso nella lunga intervista pubblicata dal catalogo della SIC.
“Nell’86, abitavo all’Acqua Bullicante, in un’edicola-libreria vidi questo libro: Dido Sacchettoni, Le notti di Arancia meccanica… Lo lessi avidamente, c’era materiale di primissima mano. Così decisi: quello sarebbe stato il mio secondo film… Sacchettoni aveva fatto parlare il capobanda che raccontava la storia dall’interno. Era questo il fatto decisivo. È lo stesso meccanismo per cui Scorsese fa Goodfellas: c’è un pentito che parla, allora può venir fuori uno spaccato straordinario”.
Anche se questo naturalmente è solo l’inizio. Il problema è cosa fare, di quel materiale straordinario. Caligari sapeva usarlo per scuotere, dando voce, corpo e profondità a tensioni rimosse dal racconto dominante della nostra società. Per questo dava così fastidio ed è riuscito a girare solo tre film in una vita. Vedere o rivedere L’odore della notte significa anche riportare a galla un conflitto che
percorre l’intera storia del nostro cinema e non si è certo esaurito con lui, anche se è sempre meno visibile, sempre più sapientemente occultato fra le pieghe di un sistema di produzione che tende a rappresentarsi come l’unico possibile.
L’essenziale insomma è non perdere di vista lo scarto che separa il suo lavoro sui generi dai generi oggi dominanti. La cosa peggiore sarebbe considerarlo un prodotto fra i tanti, oggi che purtroppo in giro ci sono sempre meno film e sempre più prodotti.
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