Aspettare un certo ruolo per tutta la vita, pazientemente. Poi quel ruolo arriva. Si fa il film. E quando il film esce, e sei pronta a presentarlo al mondo con amore, trepidazione e cura, muore Silvio Berlusconi. Proprio lo stesso giorno. La stessa mattina. C’è qualcosa di magico e mistico nel destino di Valentina Carnelutti, 50 anni, protagonista del film L’uomo senza colpa di Ivan Gergolet (al cinema dal 22 giugno), in cui interpreta una “vedova dell’amianto” in cerca di vendetta: un film d’impegno civile, già premio Ettore Scola al Bifest di Bari, praticamente annientato – in fase di promozione – dal lutto nazionale.
Lei, che insegna yoga “non come lavoro alternativo, proprio come attività”, lo chiamerebbe karma: il suo, spiega, è quello “di essere più fortunata in altri spazi della vita, non in quello professionale. O forse – aggiunge – è che non l’ho mai voluto abbastanza”. Curriculum alla mano, il fatto che Carnelutti oggi se ne stia in campagna sul monte Amiata a curare il mal di schena con erbe e olii, anziché fare provini a Roma, è un piccolo mistero: esordio a 25 anni con Gianni Zanasi e Pieraccioni (Il mio West), consacrazione con La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, due film con Virzì (Tutta la vita davanti, La pazza gioia), era persino nel piccolo “caso” dell’anno scorso, la commedia punk Margini di Niccolò Falsetti. E dopo aver girato un corto da regista (ReCuiem), progetta di dirigere un film, Re di noce, dedicato al padre, l’attore Francesco Carnelutti, scomparso sette anni fa. Altro uomo dalla vita stra-ordinaria, fuori dal canone e dal comune.
Perché tiene tanto a L’uomo senza colpa?
Perché, e lo dico senza retorica, con quel personaggio ho realizzato un doppio sogno. Il primo è stato dar voce ai feriti, a quella rabbia che scaturisce da tremendi dolori e dall’ingiustizia. Il tema della giustizia mi appartiene, mi tortura. Sarà di famiglia, forse. Il mio bisnonno era un giurista.
Il secondo sogno?
Ho 50 anni e faccio film da quando ne ho 19. Non ho avuto spesso l’opportunità di interpretare ruoli così. Lo dico senza rancore. Però pensavo che a un certo punto sarebbe capitato anche a me di mettere tutta me stessa, tutta la mia sofferenza e il mio dolore al servizio di un personaggio così grande. E questa cosa è arrivata in un momento completamente inaspettato, un po’ come quando vorresti avere un fidanzato, perdi le speranze, smetti di cercarlo e a quel punto arriva. Ivan mi ha contattata 6 anni fa. Mi ha mandato una primissima versione della sceneggiatura, che era già molto bella. Pensavo andasse come al solito, uno splendido copione che poi o non si sarebbe fatto, o sarebbe finito a qualcuna più famosa, più inserita o magari solo più giusta.
Aveva perso le speranze?
Più che altro avevo cominciato a occuparmi di me. Ho lasciato casa, mi sono separata dal mio ex, ho iniziato a insegnare yoga. Le mie figlie sono andate a vivere per conto loro. Sono diventata nonna. Sa, la prima bambina l’ho avuta a 17 anni.
Qual è il problema? Scelte sbagliate?
No, sono molto fiera di tutto quello che ho fatto. Non ho in curriculum cose di cui mi pento. Che possono sempre capitare, si intende. Forse c’è una serie televisiva che ho fatto l’anno in cui è morto mio padre, che secondo me è orrenda. Non so come si chiami, ma se me la sono scordata io, spero abbia fatto altrettanto il pubblico.
Forse è stata troppo snob in termini di percorso professionale?
Più che snob, penso di essere stata snobbata. Negli ultimi due anni ho fatto il film di Ivan, Margini e almeno 45 provini.
Allora non è abbastanza brava?
L’autocritica me la faccio tutti i giorni, appena mi alzo la mattina. Non faccio tanti film quanti mi piacerebbe, è vero, e quanti la mia carriera potrebbe consentirmi. Ma ho preso dei premi. Non credo di essere troppo cagna. Penso che si possa in parte imputare al fatto che sono poco presente nella vita sociale del mio mestiere.
Non le va di sforzarsi?
In realtà, quando mi invitano, io vado. E mi diverto pure. Se mi chiami a un festival in giuria, io sono felice. Ma inseguire questo genere di cose è un altro mestiere. Per dire: Virzì, mi ha chiamata, ho fatto due film con lui. Un regista super famoso, importante. Una goduria pazzesca. Però, ecco, dopo non mi è arrivato niente. Non è che qualcuno mi ha detto: “Ah, hai fatto i film di Virzì? Allora…”. Anche La Meglio Gioventù. Pensi che quando hanno dato il premio a tutto il cast, il Nastro d’argento, io non fui nemmeno invitata. Ero piccola, avevo 20 anni. Non lo sapevo che serviva sgomitare. E comunque quel giorno mia figlia aveva la varicella.
Oggi come vive i momenti di inattività?
Guardi io nella vita sono stata povera. A 17 anni ho avuto una figlia, a 19 la seconda, il loro padre è morto. Me le sono cresciuta da sola, facendo l’attrice di teatro e si può immaginare quanto guadagnavo. Andavamo avanti a cornetto e cappuccino, a volte il tramezzino e quando potevo pagavo. Mi sono abituata a vivere con poco, quindi non ho quella cosa, la smania. Tutto sommato, adesso sono in campagna dal mio fidanzato, sul Monte Amiata, e sono felice così. Forse non sono stata abbastanza ambiziosa, chissà. Poi adesso c’è anche il tema dell’età.
Teme i 50 anni?
Oggi la maggior parte delle attrici della mia età è rifatta. Ognuno sceglie per sé, non è quello il punto. Il tema è che se hai cinquant’anni, non si deve vedere. Un’età strana. Per me lo era anche prima, perché a 30 anni avevo le figlie adolescenti e le mie colleghe no. Sono sempre stata fuori tempo. Punto alla prossima decade, al grande livellamento: chi ha voluto far figli li ha fatti, chi si è rifatta qualche ruga ce l’avrà comunque. E a quel punto la partita si giocherà sul desiderio, sulla pulsione, sulla civiltà, sulla bravura. E lì, sì, io penso di avere qualche carta.
Progetti ne ha?
Il prossimo film di Enrico Pau, una coproduzione italo-irlandese, per cui sto studiando il sardo. E due progetti da regista: un film sugli abusi, per cui ho già una produzione francese ma non italiana, e un documentario su mio padre, cui lavoro dal 2003, Re di noce.
Di cosa parla?
Mio padre era un attore. A un certo punto, quando avevo 12 anni, è stato male. Ha avuto una conversione religiosa. E nel 2003 ha rimesso a posto un vecchio rudere all’Isola d’Elba, dove sono cresciuta, per andarci a vivere come in un eremo. Ho deciso di seguirlo con una macchina da presa, ho ripreso le nostre conversazioni, ma dopo che è morto non sono riuscita a guardare il materiale. Poi ho trovato una montatrice, che adesso ci sta lavorando: sono 300 ore di materiale, girate con Super 16, Panasonic, iPhone. L’idea è quella di raccontare la storia di una follia. E di come ci si relazioni una figlia. La verità è che i nostri genitori non sono mai là dove li vorremmo. Ma possiamo comunque andarceli a cercare.
Non ha fretta di esordire al lungometraggio?
Sincera? Ho tanti amici che fanno la loro opera prima e poi vivono 5, 6, 7 anni di merda sperando che gli facciano fare la seconda. Cominciano a fumare, si lasciano, stanno male. Io, sinceramente, no. Non mi va. Lascio che le cose accadano. Si vive meglio, sa?
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