A quasi vent’anni da quel piccolo grande gioiello di commedia dolceamara, Sideways – In viaggio con Jack, il regista Alexander Payne e il protagonista Paul Giamatti sono tornati a collaborare per The Holdovers, altro film capace di fondere con potenza emotiva la leggerezza del sorriso con il dolore della vita quotidiana.
Distribuito in Italia a fine novembre, e ambientato in un liceo del New England nel Natale del 1970, nel lungometraggio tre persone radicalmente diverse tra loro – un insegnante odiato da tutti, uno studente dal temperamento ribelle e una cuoca che ha perso da poco il figlio in Vietnam – sono costretti a passare le vacanze insieme. Presentato con grande successo al Toronto Film Festival, The Holdovers già promette di essere tra i protagonisti della prossima corsa agli Oscar. A raccontarlo a The Hollywood Reporter Roma è stato proprio Alexander Payne, 62 anni, che la statuetta più ambita l’ha già vinta due volte, per l’adattamento di Sideways e Paradiso amaro con George Clooney.
Torna a collaborare con Paul Giamatti. L’ha trovato cambiato rispetto ai tempi di Sideways?
È rimasto la persona squisita che conoscevo. Calmo, riflessivo, capace di capire sempre cosa voglia un regista da lui. Ha una cultura sopra la norma: se potesse passerebbe tutto il tempo a leggere nella sua casa di Brooklyn Heights. Sono sicuro che preferisce leggere, più che recitare. The Holdovers è stato scritto espressamente per lui, lo abbiamo coinvolto fin dal principio. Gli ho raccontato il soggetto, fatto leggere la prima stesura della sceneggiatura e ci siamo trovati subito d’accordo su come l’avremmo realizzato.
Come nasce l’idea di The Holdovers?
Sono più di dieci anni che penso a questo film, ma per vari motivi non mi sono mai messo a scriverlo. Poi ci sono stati un paio di progetti che dovevo girare e mi sono invece sfuggiti di mano, uno dei quali era The Menu. Mi sono ricordato di un programma tv che mi aveva colpito, ambientato in una scuola. Così ho contattato lo sceneggiatore David Hemingson e gli ho chiesto se fosse interessato a scrivere The Holdovers sotto la mia supervisione. Ci sono voluti due, tre anni per ottenere la sceneggiatura che desideravo. Devo ringraziare David per aver sviluppato il ruolo di Mary (la cuoca interpretata da Da’Vine Joy Randolph, ndr.): io mi ero concentrato principalmente sul rapporto professore/studente, sulle figure di Paul e Angus.
Perché ha scelto di ambientare il film negli anni ‘70?
A ben vedere tutti i miei film appartengono agli anni ‘70. Intendo dire che sono concepiti per raccontare storie e personaggi nel modo di una volta, non come adesso, con la maggior parte delle trame utili solo a inserire effetti speciali e azione. I film che vedevo da adolescente, quelli che adesso chiamano “cinema d’autore”, sono scritti e fatti meglio della stragrande maggioranza della spazzatura che producono oggi. Il mio è senza dubbio un cinema di personaggi, che muovono la storia con la loro natura, le loro decisioni giuste o sbagliate, la capacità spesso limitata di affrontare la vita. Mi piaceva poi l’idea di girare un film come si faceva in quel decennio di grandi capolavori. Mi sono ispirato a quello che nel 1973 aveva fatto Peter Bogdanovich con Paper Moon.
Non ha avuto difficoltà nel gestire un cosiddetto period-movie, un film in costume?
The Holdovers non mi ha messo di fronte a sfide più impegnative di quelle precedenti. Una volta scelte le scuole in cui girare, le riprese sono state relativamente semplici. Il New England è una zona degli Stati Uniti in cui il cambiamento avviene molto lentamente, non è stato difficile trovare ambientazioni adatte a ricostruire gli anni ‘70. Detesto girare nei teatri di posa, preferisco l’atmosfera di luoghi reali. A parte Downsizing che aveva bisogno di effetti speciali, ho lavorato a tutti gli altri miei film in location. The Holdovers è stato girato interamente in diverse scuole del Massachusetts. Il mio stile di regia poi è semplice: non uso storyboard e giro soltanto con una macchina da presa. In rarissimi casi ne ho adoperate due, quando volevo lasciare agli attori la possibilità di dialogare in libertà o dovevo gestire numerose comparse. Sono un regista che gira il minimo indispensabile, mi basta un solo punto di vista.
La sorpresa del film è l’esordiente Dominic Sessa nel ruolo di Angus. Come l’ha scelto?
Il casting director di New York Susan Shopmaker ha dovuto visionare circa ottocento provini spediti da ogni parte degli Stati Uniti. Io ne ho visti ottanta e nessuno mi ha convinto. Alcuni di quegli attori sono entrati nel cast in ruoli secondari, ma mi mancava ancora il personaggio di Angus. Alla fine abbiamo contattato il reparto di drammaturgia delle scuole in cui avremmo girato ed ecco che a Deerfield ho scoperto Dominic. Recitava nella compagnia teatrale della scuola, ma non l’aveva mai fatto davanti a una macchina da presa. È stato fenomenale. Un attore nato, ha un istinto incredibile. Mi è capitato in passato di recitare con giovani attori poi diventati star come Reese Witherspoon o Shailene Woodley. Non ho paura di dire che Dominic è al loro livello.
Sta già pensando al prossimo progetto?
Sto riflettendo sull’idea di fare un western. In maniera tradizionale, come quelli che amo. Niente di sovversivo nei confronti del genere. Non ho ancora cominciato a scrivere. So solo che vorrei ambientarlo nel Nebraska del 1880.
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