Jessica Hausner non è accomodante. Anzi. Se una domanda non ritiene abbia molto a che vedere con il suo film, placida ma ferma, lo fa notare. Magari mentre si riempie una tazza di tè. “Non credo che il corpo sia l’argomento principale di Club Zero”, afferma parlando del film presentato in concorso a Cannes 76, fuori concorso ad Alice nella città e in sala dal 9 novembre con Academy Two.
Protagonista della pellicola Mia Masikowska nei panni della signorina Novak, un’insegnante che si unisce ai docenti di un collegio internazionale per insegnare conscious eating, “alimentazione consapevole”. Il suo corso si basa su un principio innovativo: mangiare meno – o meglio, smettere di mangiare – è salutare. Un metodo che, secondo lei, purifica il corpo e aiuta a salvare il pianeta. Ma che avrà conseguenze pericolose. Un film che parla di fede e religione, favole e archetipi, ideologie e manipolazione. E di una generazione che ha perso le coordinate e decide di ribellarsi usando il proprio corpo.
C’è una distanza emotiva e fisica tra i suoi personaggi. Il suo film è un avvertimento per il nostro presente e il nostro futuro?
Credo che il film dia una sorta di prospettiva, in un certo senso, su cosa succede se i giovani non vengono ascoltati e su cosa succede se si radicalizzano e si avvicinano a idee estremiste. In questo senso, si potrebbe dire che è un avvertimento perché il film dice: “Guardate, questo è ciò che potrebbe accadere”.
Il corpo è uno dei temi del film?
Non penso sia l’argomento principale di Club Zero. Direi che il tema del film sia piuttosto l’ideologia. Credo si tratti del fatto che la signorina Novak, attraverso la nutrizione, promuova una sorta di ideologia del cibo. E credo, inoltre, che il potere della sua ideologia sia quello di dire ai giovani che grazie alla sua idea e alle sue lezioni raggiungeranno i loro obiettivi, saranno in forma per lo sport, salveranno il pianeta e saranno in grado di controllare i loro comportamenti alimentari. Dice loro che sopravviveranno. Che saranno gli unici a sopravvivere, mentre gli altri moriranno. Ciò che fornisce loro è una sorta di religione del cibo. Conforta i suoi studenti dicendo loro che staranno bene se seguiranno il suo esempio.
Come ha lavorato su questo personaggio senza giudicarlo? Perché Miss Novak pensa di essere dalla parte dei buoni.
Cerco sempre di non giudicare i personaggi, perché penso che ogni persona abbia la sua verità. Questa è la prospettiva più interessante per cercare di capire come qualcuno possa promuovere un’idea così estremista o folle. Le ricerche fatte per il film mi hanno portato a incontrare alcuni ex membri di una setta e i loro leader. Le storie più interessanti riguardavano persone che credevano davvero in quello che dicevano. Perché chi crede davvero è molto più convincente. Ecco perché abbiamo scelto che la signorina Novak fosse una vera credente.
Negli ultimi mesi l’ansia da cambiamento climatico è diventato un disagio psicologico molto diffuso tra i più giovani. Pensa che questa paura possa polarizzare le opinioni degli adolescenti e le loro decisioni di vita?
Sì, lo fa già. L’aspetto interessante è che osserviamo una radicalizzazione in atto. E credo che la ragione sia ovvia: perché ora sappiamo che il cambiamento climatico non verrà fermato. Le misure che sono state prese da alcuni governi non sono state sufficienti. Non riusciremo a raggiungere l’obiettivo. E questo è il motivo per cui, ovviamente, le persone che vivranno ancora per molto tempo stanno diventando sempre più ansiose e quindi anche più radicali. Perché non si è fatto e non si sta facendo abbastanza per fermare il cambiamento climatico.
Pensa che “l’alimentazione consapevole” di cui parla nel film sia per gli adolescenti protagonisti una forma di ribellione?
Sì, è una sorta di ribellione. Lo sciopero della fame è sempre stato anche un mezzo di protesta politica. Il personaggio di Elsa, che mangia il suo stesso vomito, mette in atto una forma di sciopero della fame e vuole far capire agli altri che l’industria alimentare sta rovinando le nostre vite e il pianeta.
Temeva che il messaggio del suo film potesse essere frainteso?
È una possibilità. Può sempre accadere. Non posso impedirlo. Altrimenti non potrei essere una regista e non potrei fare film.
Ritiene che i genitori abbiano una responsabilità nella perdita di coordinate di questa generazione?
Sì. E penso che oggi non sia così facile, perché molte persone devono lavorare molto per guadagnarsi da vivere. Viviamo in una società che si basa sul merito. Tutti devono lavorare molto, non c’è tanto tempo libero. Credo sia un problema perché i genitori perdono il contatto con i loro figli. Non è facile per un padre o una madre che lavora tutto il giorno ed arriva esausto la sera avere un buon rapporto con i propri figli. È un grosso problema nella nostra società.
Nel suo film racconta anche una dinamica di potere.
I ragazzi si prendono cura l’uno dell’altro o vogliono compiacersi l’un l’altro seguendo il culto della signorina Novak. Essere in un gruppo fa sentire più forti. Non si è più soli. E il gruppo, in una setta, pensa anche di sapere meglio degli altri. C’è un senso di superiorità. Sono meccanismi di psicologia ampiamente studiati.
Secondo lei, perché abbiamo bisogno di credere in qualcosa? Anche alla più irrealistica e irrazionale delle idee?
Tutti i miei film parlino di questa necessità di credere in qualcosa. Penso sia un bisogno esistenziale che hanno tutti. Cerchiamo un significato alla vita. Ci deve essere un motivo per cui ci alziamo la mattina, facciamo il nostro lavoro o aspettiamo con ansia le cose. Ognuno di noi, in un certo senso, vive per certe idee che ha in testa. E la religione o l’ideologia ne fanno parte. Vogliamo dare un senso alla vita e preferiremmo che la morte non vi ponesse fine. Alcune religioni affermano che la vita continua dopo la morte. Penso sia tra le ragioni fondamentali per cui crediamo. Vorremmo vivere per sempre.
Il design del film ha un’atmosfera anni Settanta ma non possiamo dire con precisione dove e quando è ambientato il film. Perché questa sospensione?
Insieme alla costumista Tanja Hausner cerchiamo sempre un’estetica nei costumi che sia senza tempo. In tutti i miei film ci sono elementi di diverse epoche. Li combiniamo in modo che diventino uno stile a sé stante. Non voglio siano ambientati in un’epoca specifica, perché cerco di raccontare una storia il più universale possibile. Che sia vera adesso, ma anche nel passato e nel futuro.
In Club Zero ci sono molte riprese dall’alto, alcuni zoom. Cosa rappresentano questi movimenti e queste inquadrature?
Con il direttore della fotografia Martin Gschlacht cerchiamo di creare un linguaggio cinematografico che dia allo spettatore la sensazione che non tutto venga mostrato. Ci sono quindi alcuni elementi fuori dall’inquadratura o che vi entrano per poi uscirne di nuovo. La macchina da presa si muove in modo molto autonomo. L’idea alla base è quella di creare un mondo non completo. Ci sono collegamenti mancanti con i quali cerco di suggerire che non possiamo collegare tutto. Perché non tutto ha senso. Ci sono punti interrogativi che nessuno conosce e a cui nessuno può rispondere. A volte penso che i miei film siano come un puzzle dove alcuni pezzi sono andati persi.
Ha avuto la possibilità di parlare con un pubblico di adolescenti del suo film?
Solo nell’ambito della mia famiglia. Ma credo che ci saranno delle proiezioni nelle scuole più avanti. E incontrerò alcuni adolescenti per discutere del film.
Cosa spera venga a galla?
Mi piacerebbe discutere con loro di cinema. Perché credo che per i ragazzi sia piuttosto insolito vedere film d’autore al giorno d’oggi. Guardano tutti le serie Netflix. E il ritmo è molto diverso. Mi piacerebbe discutere di come si può fare un film insolito e perché. E di cosa dice al pubblico. Perché il mio film, ad esempio, lascia aperte alcune domande?
Viviamo nell’epoca dei social media e dell’informazione manipolata. Crede siano due pericoli per la generazione più giovane?
Personalmente non credo che il problema sia l’informazione. Anzi, penso sia positiva e aiuta tutti. Credo che il problema più grande sia quello dei social media. Invitano a diventare aggressivi sui social media. Non ho mai sperimentato un modo di messaggiare più aggressivo di WhatsApp. Se si incontra qualcuno di persona, si cercherebbe di risolvere il problema, anche gentilmente. Ma dato che su WhatsApp è tutto un po’ più anonimo, improvvisamente qualcuno sente di poter dire o scrive qualcosa di molto offensivo. Questo è il pericolo. Che attraverso i social media ci si trovi in questa sorta di limbo, proprio perché non si è realmente di fronte alle persone. È come avere un vetro intorno a te. E questo invita le persone a essere intolleranti.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma