Lo dicevano Beethoven e Mozart: un crescendo non può montare all’infinito. Ci sono maestri del cinema che smentiscono la regola: Steven Spielberg, Quentin Tarantino. Altri, invece, hanno attraversato climax e cadute, rinascite e cambiamenti. È il divenire di Eraclito, la sostanza dell’essere, ogni cosa è soggetta a trasformazione, anche la carriera di un regista. Succede. Eppure molti cinefili (e la cinefilia in toto) non vogliono accettarlo.
Si potrebbe dire quasi che non lo capiscano, ma è evidente che, in realtà, non vogliano proprio. È la genuflessione al genio: se sei il mio Dio, allora lo sarai per sempre. Nessuno ha l’umiltà di ammettere che “Dio è morto, e anche io non mi sento tanto bene”. E Woody Allen lo rincontreremo presto.
Sarà lo status, di certo il doversi conformare a certi standard per farsi rilasciare il pass da cinefilo, ma sembra che di alcuni registi sia impossibile parlare male. Non perché esenti da critiche o perché non possano perdere neanche un colpo. È semplicemente per quello che viene chiamato “un dato di fatto”. Un’attestazione che non c’entra niente col risultato finale. È così, e basta.
Il caso di Killers of the Flower Moon
Nel 2023 a dimostrarlo è stato Martin Scorsese con Killers of the Flower Moon, tratto dal libro investigativo Gli assassini della terra rossa di David Grann. Un grande film, ma il migliore di Scorsese? Un ottimo reportage sul razzismo sistemico della fetta bianca occidentale (soprattutto maschile) che ha abusato e ammazzato le comunità dei nativi americani, ma il più entusiasmante dal punto di vista cinematografico?
Per la ricostruzione storica sì, forse. Ma una sequenza qualsiasi de I segreti di Wind River di Taylor Sheridan ha una densità se non superiore, sicuramente pari e più approfondita di un ritratto troppo grande con cui questa volta Scorsese – insieme al co-sceneggiatore Eric Roth – si è confrontato. E il film, signore e signori, è comunque un bel film. È un film di Martin Scorsese.
Ma questo non significa che un film di Martin Scorsese sia inattaccabile solamente perché è Martin Scorsese. Verrebbe meno il principio shakespeariano per cui “quella che noi chiamiamo rosa, pur con un altro nome avrebbe sempre lo stesso profumo.” Perché se Killers of the Flower Moon non avesse dietro il nome di Martin Scorsese, allora chissà se il suo profumo davvero non cambierebbe.
E forse se ci si mettesse a tavolino con Martin Scorsese, sarebbe anche interessato a sentire quali siano i nostri dubbi nei confronti del suo lavoro. Spesso vien detto che i più grandi sono i più grandi proprio perché sono bravi ad ascoltare, ad accettare le idee degli altri, a rimanere aperti e pronti al confronto. L’importante è non scadere negli insulti, nelle rozzezze del genere umano (le stesse che a molti cinefili, invece, piacciono tanto).
In realtà ad avvelenarsi, la stragrande maggioranza delle volte, sono gli spettatori. I fan. Il pubblico. Manco gli avessi toccato la mamma. E come è facile additare dicendo che ci sono film spartiacque che fanno capire chi e chi non dovrebbe parlare di cinema. E guarda caso, quei film sono sempre dei “maestri”. Abbastanza facili da difendere, o no?
Da Ferrari a Napoleon: la sordità della cinefilia
C’è poi chi, proprio per difendere, scade nel volgare, e non è detto che sia sempre un giornalista, opinionista, critico o cinéphile di turno a farlo. A volte può essere qualcuno del cast. “Fuck you”, risponde Adam Driver a un ragazzo del pubblico del Camerimage Film Festival che gli chiede una sua opinione su alcune scene di Ferrari, da lui ritenute “dozzinali”.
E come è facile rispondere male a uno spettatore indifeso davanti al pubblico quando sei una star. Chissà mai da che parte penderanno le persone. E chi altro avrà mai il vigore di chiamare le tue scene “dozzinali”.
Eppure, proprio il film di Michael Mann, è un altro di quei titoli che devono piacerti perché devono piacerti. Come se L’ultimo dei Mohicani, Heat – La sfida e Collateral potessero spazzare via tutte le imperfezioni della produzione italo-americana di Ferrari, ricostruzione dell’incidente di Guidizzolo compreso.
A tratti c’è da preoccuparsi, tanto che si potrebbe diagnosticare un’incurabile sordità a chi non vuole minimamente ascoltare l’antitesi alla propria tesi. Come si può non capire che un’opera può risultare debole, pur con magniloquenti scene di battaglia e un’opulenza nella messinscena degna del più sfarzoso imperialismo?
No, se a te di Napoleon non ha convinto la caratterizzazione (volutamente) idiota di Napoleone, allora non sei in grado di apprezzare il cinema di Ridley Scott – o, forse, il cinema in generale. Impossibile contestare. E va bene che in quel secolo era frequente sentire pronunciare la frase: “Tagliategli la testa!”.
Maestri di serie A, registi di serie B
È la paura della contestazione, l’adulazione come atto irremovibile, ed è incredibile che si ostenti una simile attitudine reazionaria proprio verso degli autori che, ai tempi dei loro inizi, i sistemi li hanno fatti saltare in aria. Non erano inscatolati in nessun regime, ora il loro dover piacere per forza è l’unico assolutismo.
Ed è qui si ritorna a Woody Allen. Perché è incredibile come questo sistema governativo della cinefilia e della critica venga applicato solamente ad alcuni “mostri”, mentre altri vengono buttati in mezzo agli squali. Nonostante il riconoscimento mondiale, le quotes sui poster in giro per il mondo e l’abbigliamento alla Annie Hall di tantissime ragazze amanti di Diane Keaton, è leggenda comune considerare l’Allen post Millenium bug insoddisfacente rispetto ai classici La Rosa purpurea del Cairo, Manhattan e Hannah e le sue sorelle (vincitore di tre premi Oscar).
Come se non si avessero presenti Match Point, Basta che funzioni, Midnight in Paris e Blue Jasmine (secondo Oscar, in questo caso, per Cate Blanchett miglior protagonista). E non c’è da snobbare nemmeno il tenero Café Society e il drammatico La ruota delle meraviglie, rivisitazione moderna – seppur la storia è ambientata negli anni cinquanta – di Un tram che si chiama desiderio. Che poi, anche lì, dell’essere bravo o meno a Allen frega poco, gli basta che l’unica eredità del suo lavoro vada ai figli (o che continui a incassare i diritti d’autore, finché gli è possibile).
Ci sono quei registi che poi, per vie traverse, subiscono il servizio contrario rispetto ai blasonati maestri. Seppur il pubblico più scettico possa ricredersi, l’attesa di un film di Christopher Nolan non è mai armoniosa e serena. Ci sono prese in giro, facili umorismi, la tendenza a dare dei cialtroni ai cineasti quando, forse non è abbastanza chiaro, ma essere cialtroni è esattamente il loro mestiere. Intontirci, affabularci. I registi sono cialtroni per antonomasia, Fellini approverebbe.
I maestri sacri non vanno difesi (sanno farlo perfettamente da soli)
Ma dove sono i coraggiosi? Dove c’è la voglia di mettersi in dubbio? Magari avanzare un appunto senza venir sbranato? Va bene, forse era il metodo dei Cahiers du cinéma, attaccare e essere attaccati, ma se i tempi sono cambiati, non può esserlo anche la critica, la cinefilia e il modo a cui ci si può approcciare?
Chi è in disaccordo non lo confessa fin quando non lo fa qualcun altro, e non è detto neanche che lo faccia ad alta voce. È tutto un sussurrarsi all’orecchio, un confidare, un pentirsi con un bisbiglio: “Sai, il film di Martin Scorsese, non è piaciuto neanche a me”. Non c’è possibilità di assoluzione, nemmeno dopo tre Ave Maria.
La cosa meravigliosa, inoltre, è che di questo continuo auto-affermare l’ovvio (ossia: sono – o comunque sono stati – tutti grandi registi) importi più a noi che a loro. Sempre Scorsese ha affermato: “Devo saper dimostrare di saper fare un movimento di macchina davvero bello? Come in Quei bravi ragazzi? Bene, l’ho fatto. Farlo ancora? No. Andava bene una volta, non è detto vada bene oggi”.
La cinefilia (e i Nanni Moretti) di oggi
È come se il fuoco di giovani registi e sceneggiatori, che andavano contro le figure iconoclaste del passato, si fosse spento lasciando solo carbone fossile. E servirebbe un Nanni Moretti che, come al tempo di Io sono un autarchico, si arrabbia e si alza per aver perso contro Un cuore semplice di Giorgio Ferrara al premio Angelo Rizzoli.
E non per il gesto in sé, ma per l’audacia di andare contro una giuria formata da maestranze e intellettuali (“Ve lo meritate Alberto Sordi”, giurato della manifestazione, come strepitava il suo Michele nel seguente Ecce Bombo del 1978). È come se il cinema fosse l’unica branca dove non si vogliano uccidere i padri. Freud ne sarebbe profondamente deluso.
Nel facile accanimento contro i registi e le registe più giovani, più ancorati a un presente in cui è normale che il cinefilo possa avere al principio più difficoltà a riconoscersi, il 2023 ha confermato che ci sono ancora dogmi da dover rispettare. Allora, per l’occasione, è appropriato citare un precettore, Alberto Arbasino, modificando una sua citazione alla luce di quel divenire che, a quanto pare, si è improvvisamente fermato: va bene “giovane promessa” e “venerato maestro”, ma a quanto pare non si diventa più “solito stronzo”.
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