Caterina d’Aragona, ripudiata. Anna Bolena, decapitata. Jane Seymour, morta di parto. Anna di Clèves, ripudiata pure lei. Caterina Howard, dritta al patibolo. E poi lei, Katherine Parr, l’ultima delle sfortunatissime mogli di Enrico VIII. Congiunta al re d’Inghilterra nell’ultima fase della sua vita – obeso, malato, zoppo e incontrollabilmente violento – Katherine fu la più sfortunata di tutte le mogli del monarca, perché unica a sopravvivergli sino alla fine. In cosa consistesse la sua vita quotidiana ce lo spiega Firebrand, film in concorso del brasiliano Karim Aїnouz, già vincitore dell’Un certain regard a Cannes nel 2019 (La vita invisibile di Euridice Gusma) e distribuito prossimamente in Italia da Vertice 360: percosse, stupri, vessazioni, umiliazioni quotidiane che la regina subiva in silenzio, in attesa che la malattia del marito facesse il suo corso portandolo, possibilmente, all’inferno.
Storie di ordinaria follia alla corte di re Enrico VIII, che il film riprende dal romanzo storico di Elizabeth Fremantle: Katherine è Alicia Vikander, Enrico VIII è un Jude Law all’ennesima potenza (il monarca, quando salì al trono a 18 anni, era considerato il più bel principe d’Europa), e la storia segue l’ultimo tratto della loro relazione, quando la regina si avvicina incautamente alle posizioni degli eretici e il marito, per dirla con un eufemismo, non la prende molto bene. Intorno a loro la classica corte Tudor di parenti serpenti, servile e terrorizzata il giusto: il prete conservatore, il nobile traditore, i figli delle precedenti mogli (tra loro Edoardo, che morirà a 15 anni, e la futura regina Elisabetta I, interpretata da Junia Rees), i medici vessati e una serie di possibili aspiranti al trono – tutti maschi – che non aspettano altro che di liberarsi, in un colpo solo, del monarca fuori controllo e della sua consorte illuminata.
Tutto già visto, tutto già scritto – otto stagioni de Il Trono di Spade hanno formato un pubblico esigentissimo – non fosse per la presenza sullo schermo di Jude Law, quasi irriconoscibile nel corpo sfatto e nell’animo altrettanto deforme di Enrico VIII. Una tonnellata d’uomo che si impone sulla moglie in amplessi che sono esercizio di dominazione (impietose le inquadrature di nudo del re: che si tratti di prostetica, di una controfigura o del corpo dell’attore è materia di discussione fra le signore in sala), violento fisicamente e verbalmente, egocentrico, perverso, vendicativo. Il suo Enrico VIII incarna con spaventosa precisione la capricciosa misoginia del personaggio, facendo del corpo di Katherine – ma non della sua anima – ciò che vuole.
La tocca, la strattona, la percuote, la manipola, imponendo il suo maligno carisma in ogni scena. Difficile tenergli testa e Vikander fa quel che può. Ma la sua regina, che pure del film è la protagonista, non riesce ad essere altrettanto convincente – né sul piano strategico (regalare un gioiello del marito alla predicatrice più ricercata d’Inghilterra non è esattamente un’ottima idea), né su quello emotivo, con un’interpretazione in sottrazione sempre al servizio di Law. E dire che Katherine, amica degli eretici nel momento meno opportuno possibile, e reggente d’Inghilterra mentre Enrico era in guerra, qualche dote particolare, oltre a un’indubbia resilienza, storicamente l’avrebbe anche dimostrata.
Come già in Jeanne du Barry di Maïwenn, film d’apertura di Cannes, a sollevare il film da un’ordinaria media – Firebrand sarebbe un ottimo prodotto da piattaforma per le sere invernali – è la performance di un grande attore nei panni del monarca. Insomma, è morto il re, viva il re. Ma Dio salvi le regine, per averne sopportati così tanti.
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