In principio fu Travis Bickle, ex marine affetto da insonnia e tassista per le strade di New York con il volto di Robert De Niro in Taxi Driver. Un uomo alienato, emblema degli Stati Uniti post Vietnam, che si trasforma in un giustiziere pieno di risentimento e odio. Lo stesso che ha alimentato per anni il protagonista de Il maestro giardiniere, Narvel Roth (Joel Edgerton), orticoltore di Gracewood Gardens, Louisiana, con un passato al soldo dei suprematisti bianchi.
Due versioni dello stesso antieroe esistenziale. Una linea invisibile che dal 1976 arriva fino ai giorni nostri. A tracciarla Paul Schrader, maestro del cinema moderno da sempre ossessionato dalla figura di “un uomo solo in una stanza”.
Il maestro giardiniere, ultimo atto di una trilogia
Un tema sviscerato anche in una trilogia iniziata nel 2017 con il reverendo Ernst Toller (Ethan Hawke) di First Reformed e proseguita nel 2021 con William Tell (Oscar Isaac), l’ex carceriere di Abu Ghraib reinventatosi giocatore professionista di poker ne Il collezionista di carte. A mettere un punto al racconto di uomini solitari, schiacciati dal peso del passato, arriva ora Narvel Roth. Meticoloso, silenzioso, Narvel è votato al suo lavoro.
“Il giardinaggio è un atto di fede nel futuro che le cose andranno secondo i piani”. E ne Il maestro giardiniere, così come nei due film precedenti di Schrader, è palpabile l’attesa di un cambiamento, nonostante il ritmo del racconto sia – magnificamente – denso, dilatato.
Presentato fuori concorso a Venezia 79, dove il regista ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, Il maestro giardiniere richiama esplicitamente alle tensioni razziali che da sempre attraversano gli Stati Uniti ma che in questi ultimi anni, a partire dall’uccisione di George Floyd passando poi per rigurgiti neo-nazisti e la nascita di un movimento come il Black Lives Matter, hanno fortemente polarizzato la società americana. Non è un caso che il film, dopo l’iniziale idea di ambientarlo in Australia accantonata a causa del Covid, abbia come sfondo la Louisiana, triste culla dello schiavismo a stelle e strisce.
Le tensioni razziali negli Stati Uniti
Narvel ha inciso sulla pelle il suo passato. Tutte le mattine e tutte le sere, quando si sveste e si spoglia, deve fare i conti allo specchio con l’uomo che è stato osservando i tatuaggi di matrice nazista incisi sul corpo, mappa per ricostruire la sua storia (criminale). La stessa da cui cerca di redimersi dopo essere entrato nel programma di protezione testimoni ed essere stato assunto da Norma Haverhill (Sigourney Waver), ricca proprietaria della tenuta di Gracewood. La sua vita viene stravolta quando incontra Maya (Quintessa Swindell), problematica nipote afroamericana di Haverhill, capace di far riaffiorare segreti che credeva sepolti e costringerlo a fare i conti con un sentimento inedito che porta a una trasformazione interiore.
Un altro elemento cardine della trilogia. Se in First Reformed era messa in relazione alla morte e ne Il collezionista di carte con il tornare in carcere del protagonista, ne Il maestro giardiniere avviene attraverso un giardino. Una metafora di quello dell’Eden, paradiso perduto e sede del peccato originale. Una colpa da espiare, comune a tutti gli uomini che Paul Schrader racconta, possibile solo attraverso l’amore e un prezzo molto caro da pagare.
Ma se nei capitoli precedenti restava l’amaro in bocca per le sorti dei suoi personaggi, ecco che in questo ultimo atto arriva, inaspettato, il calore della speranza: che il regista affida ai versi di una canzone, Space and Time, intonati da Mereba. “I never wanna leave this world without saying I love you”. “Un messaggio personale ma anche globale”, secondo Schrader. “Forse la canzone che canteremo quando il mondo finirà”.
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