T-shirt bianca e giacca grigia oversize, jeans morbidi e sneakers colorate ai piedi. E poi l’immancabile rossetto rosso. Incontriamo Justine Triet, regista di Anatomia di una caduta – Palma d’oro a Cannes in anteprima alla Festa del Cinema prima di arrivare al cinema il 26 ottobre con Teodora Film – in una mattinata di ottobre dalle temperature primaverili. L’appuntamento è in uno spazio adibito per le interviste vicino l’Auditorium Parco della Musica di Roma. Un tavolino traballante a fare da arredamento e una bottiglietta d’acqua da cui bere tra una risposta e l’altra.
Triet ha la nomea di essere un osso duro. Un pregiudizio che l’accomuna alla protagonista del suo film, Sandra (una sempre incredibile Sandra Hüller). Una scrittrice famosa che vive con il marito Samuel e il figlio non vedente Daniel in un remoto chalet di montagna sulle Alpi francesi. Quando l’uomo muore in circostanze misteriose, Sandra viene accusata di omicidio. Ma il processo sembra più interessato a mettere sotto la lente d’ingrandimento le dinamiche della loro relazione e le azioni della donna rispetto a scoprire la sua innocenza o colpevolezza.
“È come se si dovesse rinunciare all’idea di stare insieme, di essere in coppia o avere una famiglia, per essere un artista”, racconta a THR Roma la regista che con Anatomia di una caduta ha messo d’accordo tutti, pubblico e critica. Tranne il comitato francese di selezione per il Oscar, che ha preferito candidare un altro film, La Passion de Dodin Bouffant di Trần Anh Hùng. “Spero non si tratti di una decisione politica e che non arrivi come una punizione dopo il mio discorso a Cannes”, sottolinea Triet in relazione alle opinioni espresse contro la riforma pensionistica promulgata dal presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron.
Con il suo film torna al tema giudiziario. Nelle aule di tribunale le storie vengono ricostruite, ma non sempre raccontano la verità, bensì una possibile versione della storia. È questo che la interessava?
Mostrando la storia di questa coppia attraverso il sistema legale la vediamo tramite un’interpretazione. Non abbiamo mai a che fare con la verità assoluta, ma con una verità soggettiva. Ciò che mi affascinava era l’idea che la società fosse in preda a un delirio per questa donna e iniziasse a dire ogni sorta di cose, più o meno vere, costringendo lei a doversi giustificare continuamente. Penso che il luogo della giustizia sia ancora oggi quello in cui si è un po’ vicini alla verità. E questa è una cosa affascinante perché quello stesso luogo sembra dirci qualcosa – “Vi racconteremo esattamente cosa è successo” – ma, in realtà, siamo sempre un po’ fuori strada.
La componente thriller del film, sebbene molto importante, la potremmo definire una cornice?
Ci sono altri aspetti che emergono, in effetti. Può essere presentato così, ma in realtà è molto più di un thriller. David Cronenberg ha affermato una cosa geniale al riguardo. Quando ha realizzato La mosca ha detto: “Se racconti la storia, è orribile! Un uomo sta per morire e la sua compagna lo accompagna in questo processo”. È un racconto molto cupo. Ma i film di genere ti permettono di farti superare questo aspetto e ti aiutano a penetrare nella storia. Penso che il procedurale permetta davvero di entrare nello studio della coppia.
Crede che il genere abbia elevato il racconto?
Sì, se non fosse stato un thriller credo sarebbe stato un film piatto, mediocre. Credo inoltre che il vero soggetto del film sia approfondire le dinamiche di questa coppia dove la donna ha un ruolo molto forte, e dove la questione della divisione dei compiti in casa è al centro del loro disaccordo. Così come lo è la lingua stessa con la quale comunicano.
Al centro del suo film c’è la coppia, ma la figura del figlio Daniel è importantissima. Non vedente – e quindi testimone inaffidabile – è anche la persona che meglio conosce i suoi genitori. Come ha lavorato su questo personaggio?
Sono d’accordo e in disaccordo con quello che ha detto. Perché penso che sì, conosce bene i suoi genitori, ma ci sono anche punti della relazione dei quali è all’oscuro. È esattamente come noi spettatori. Quando entriamo nel film ci mancano dei dettagli. A volte, i film sui processi ci dicono molte cose con lo scopo di spiegarci tutta la verità. Questo film è quasi l’opposto. Ci dice che ci manca qualcosa, proprio come a Daniel. Il racconto è costruito su questa mancanza. E quando ci manca qualcosa, fantastichiamo. Ne è un esempio la registrazione della discussione tra i protagonisti che si sente in aula. Porta le persone a ipotizzare perché non si ha un’immagine di supporto. Quando si ascoltano delle persone che litigano, si immagina sempre il peggio. Penso che Daniel si sia perso. Si ritrova a dover giudicare sua madre. La peggiore situazione possibile.
Il suo film si chiama Anatomia di una caduta, ma si sarebbe potuto chiamare Anatomia di una relazione. Le dinamiche della coppia, rispetto ad una tradizione superata, sono invertite. Ma nonostante la modernità di Sandra e Samuel prevale in lui un’insofferenza. Perché?
Perché credo che, anche se abbiamo fatto dei progressi, questo tipo di modello di vita non sia così comune. Intorno a me, nonostante provenga da un ambiente piuttosto artistico, non vedo molte donne in questa posizione. O sono donne single che hanno deciso di non avere un partner e figli – e quindi è una loro scelta – oppure si tratta di donne in una relazione che, quando ci sono di mezzo dei bambini, si scontrano con la sensazione che l’inversione dei ruoli non si affatto scontata. Anche se ci evolviamo, questo genere di cose è più lento a cambiare di quanto la società stessa vorrebbe.
È un modello sociale ancora di nicchia?
Quando ho girato il film, ho capito fino a che punto non fosse così comune il tipo di coppia che racconto. Credo che queste domande siano ancor più importanti perché la protagonista è una donna che crea, un’artista. Come direbbe Virginia Woolf, ha il suo spazio per pensare al mondo. E questo, all’interno di una famiglia, è qualcosa di davvero non così comune. Senza è più facile realizzarsi. Ma è come se si dovesse rinunciare all’idea di stare insieme, di essere in coppia o avere una famiglia, per essere un artista. Entrambe le cose, insieme, non sono facili. Anzi.
Il 24 ottobre, in Islanda, ci sarà uno sciopero delle donne a cui aderirà anche la prima ministra Katrín Jakobsdóttir. Non andranno a lavoro e non si occuperanno della casa per protestare contro la violenza di genere e il divario di retribuzione rispetto agli uomini. Cosa ne pensa?
Che va benissimo! Ma non dobbiamo farlo solo un giorno nell’arco di un anno. Non è sufficiente (ride, ndr). Penso sia un’ottima idea e che contenga qualcosa di profondo. È un concetto molto post-individuale che dobbiamo sviluppare. Nella mia vita mi ha aiutato avere degli idoli, persone che potessero essere d’esempio per me. Più donne ci sono che ci mostrano che possiamo vivere in modo diverso meglio è. Quando ero giovane ascoltavo le voci di Marguerite Duras, Françoise Sagan. Mi hanno aiutato, le guardavo e mi dicevo: “Hanno un modo diverso di essere donne”. E spesso erano single, in effetti. Felici di stare da sole. Abbiamo bisogno di modelli di ruolo per dire a noi stesse: “Ok, non sono un’eccezione. Non è incredibile: è semplice”. Ma ognuno ha il suo percorso.
Il processo, fatto di supposizioni e tentativi di riempire gli spazi vuoti di questa storia, denota anche un certo sessismo nei confronti di Sandra. È qualcosa che nel suo lavoro, nella sua stessa vittoria a Cannes, ha sperimentato?
Per quanto riguarda la Palma d’oro più che altro ho sperimentato amore. Può darsi che ci sia stato qualcuno che non fosse gentile, ma non l’ho incontrato (ride, ndr). Per contro, ho sperimentato molto sessismo nel corso della mia vita e sul set. Ero la ragazza troppo simpatica e divertente per trasmettere autorità. Credo ci fossero molti automatismi radicati in me, mi vergognavo quasi di voler occupare spazio o di esistere in modo troppo forte. Quello di fare le cose come gli uomini è un viaggio che ha richiesto molto tempo per me. Penso che quando una donna, per esempio, commette un errore o sbaglia, viene criticata molto di più di un uomo.
Durante il suo discorso di accettazione della Palma d’Oro ha criticato il governo Macron per la riforma pensionistica e ha anche sottolineato che il sostegno statale alle arti è in pericolo. Proprio in questi giorni in Italia c’è un acceso dibattito sui tagli al tax credit. Un paese che non investe nell’arte e nella cultura che futuro ha?
Non possiamo limitarci a dire: “Oh sì, ci sono i soldi”. Dipende da dove vengono messi. Si perde la vera visione di ciò che è il cinema. In altre parole, se si investe denaro solo su grandi progetti, questo non aiuterà per niente le giovani generazioni a proporre film interessanti. Dieci anni fa ho fatto un film (La Bataille de Solférino, ndr) che non ha raggiunto nessun risultato al botteghino. Nessuno mi conosceva. Ho iniziato con niente. Una carriera è molto lunga. Se non si cercano i talenti là fuori, non si può fare tutto da soli. Forse oggi sono le piattaforme come Netflix che si limitano a trovarle per standardizzarle molto rapidamente.
Come si può evitare che questo accada?
Dovremmo assolutamente preservare quella che è la diversità del cinema. Purtroppo so che non è facile perché ora la concorrenza è molto più dura. Ma credo che i governi di ogni paese debbano prestare particolare attenzione a questo aspetto perché le persone amano il cinema. Basta pensare al Covid. Cosa faceva la gente? Leggeva un po’ e guardava film. Ora con lo sciopero negli Stati Uniti le persone non guardano più le loro serie preferite. Ma hanno bisogno di questo genere di cose. Oggi le piattaforme sono alla ricerca di nomi nuovi. Queste persone, per arrivare, hanno bisogno di tempo di esprimersi. Penso non ci sia abbastanza visione e interesse in questo come potrebbe essere stato in un altro periodo.
Il comitato francese di selezione per gli Oscar ha preferito candidare un altro film, La Passion de Dodin Bouffant di Trần Anh Hùng, rispetto al suo nonostante il successo di critica e commerciale. Questo l’ha sorpresa? L’ha ferita?
Sì, certo. Siamo rimasti molto delusi. Spero non si tratti di una decisione politica e che non arrivi come una punizione dopo il mio discorso a Cannes. Oso sperare non sia così. Non riesco a immaginarlo. È stata una grande sorpresa. Ma più da parte di chi era intorno a me. C’è stata una forte reazione sia da parte della stampa che da parte delle persone che mi hanno scritto. Mi ha davvero toccato. Mi sono fatta molti amici (ride, ndr).
L’immagine dell’uomo che cade è ricorrente nei nostri stessi sogni. La caduta simboleggia anche la perdita delle sicurezze, dei punti di riferimento. Sono gli stessi che perde Samuel quando il suo ruolo di uomo all’interno della società tradizionale vacilla?
L’immagine proviene da Mad Men e da quella caduta senza fine della sigla. Un corpo che cade ma non si ferma mai. Un riferimento all’11 settembre che è stato pesantemente criticato negli Stati Uniti perché molte vittime hanno detto di sentisi sconvolte da quella caduta. Sono stata perseguitata per molto tempo da questi titoli di coda e credo simboleggino la caduta della virilità dell’uomo, non l’uomo con la U maiuscola, ma l’uomo che rimette in questione il suo posto nel mondo.
La protagonista afferma che per creare ha bisogno di partire da qualcosa di reale. È così anche per lei?
Sì, è impossibile scrivere senza aver trovato il luogo interiore che ci parla. È il senso stesso di questo lavoro.
Coma ha lavorato con Sandra Hüller? Ha dato a lei dettagli sulla storia di cui il suo personaggio e gli spettatori non erano a conoscenza?
No, l’unica cosa che le ho detto è di recitare come se fosse innocente. Ma non sapeva altro (ride, ndr).
Nel film avrebbe dovuto utilizzare Jolene di Dolly Parton. Perché quando non l’ha potuta avere ha scelto la versione strumentale di P.I.M.P. di 50 Cent?
Quando abbiamo dovuto abbandonare Jolene, un brano molto analizzato durante tutto il processo produttivo, è stato orribile. Amavo quella scena e l’ho dovuta togliere. Dopo di che, ho riflettuto a lungo su quale canzone potesse sostituirla. Abbiamo scelto P.I.M.P. che effettivamente è molto misogina. Credo avesse qualcosa da dire di molto interessante perché si poteva ascoltare più volte senza che risultasse troppo aggressiva. E, allo stesso tempo, c’era un contrasto tra il lato felice della canzone e la scena della scoperta del corpo morto nella neve. Penso fosse interessante per rappresentare Samuel perché è lui, nella prima scena del film, a mettere questa canzone. Ed è l’unica azione, mentre ancora era vivo, che parla per lui.
Sente pressione all’idea di mettersi a lavoro su un nuovo film dopo il consenso avuto con Anatomia di una caduta?
Si. Penso ci sia una pressione obbligatoria. Ma è peggio di così. È impossibile replicare un successo del genere! Quindi mi sono detta: “Ok, metti da parte la pressione. Farai un un brutto film, invece!”.
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