Bambi, tenero com’è, fu cacciato dai nazisti e mandato al rogo. Vi sbagliate: non è una sanguinaria trama alla Quentin Tarantino e neanche (almeno finora) l’ultimo progetto di un regista indipendente alle prese con la sovversione delle favole e dei cartoni animati.
E’ la “vera storia scioccante” (così la definisce The Guardian) del simpatico capriolo (o cervo dalla coda bianca, nella sua estensione filmica) assurto grazie alle cure di Walt Disney al Gotha delle figure-simbolo dell’immaginario globale. In altre parole, il romanzo che segna la sua nascita, Bambi, la vita di un capriolo, dello scrittore austriaco Felix Salten, era una furente allegoria antinazista, tutt’altro che tenera.
Mandato al rogo nel Terzo Reich
Oggi se ne parla perché il libro di Salten – in realtà un ebreo ungherese, il cui vero nome era Siegmund Salzmann – quest’anno compie un secolo di vita (fu pubblicato nel 1923 dall’Ullstein Verlag, dopo essere uscito a puntate sul quotidiano viennese Neue Freie Presse), e merita dunque uno sguardo approfondito. Se non altro perché una manciata d’anni dopo ebbe lo stesso destino di un’infinità di altri volumi prodotti dall’intelligenza pensante: il primo Bambi ed il suo seguito vennero banditi e mandati al rogo dai nazisti, che li consideravano nient’altro che opera di “propaganda ebraica”. Da parte sua, nel 1938, il buon Salzmann diventato Salten scappò insieme alla moglie dall’Austria dell’Anschluss, per riparare in Svizzera fino alla fine dei suoi giorni.
E’ vero, l’aura di cupezza non abbandonò mai la storia, neanche nella sua versione disneyana – e non solo per la scena proverbiale della morte della mamma di Bambi – tanto che un sulfureo Stephen King ha parlato del film come del primo horror della sua vita. Ma nell’originale di Salten l’elemento dark è molto più marcato: il pericolo dell’essere cacciati qui è onnipresente, è la minaccia costante che aleggia dalla prima all’ultima pagina. Morire, per mano dell’uomo bianco – un “Lui” che pare onnipotente e terrorizzante – è la norma: vengono uccisi sia la madre di Bambi che suo cugino Gobo (che nel film diventa il coniglio Tamburino).
Non finisce qui: anche Bambi è ferito, colpito da una pallottola di “Lui”, e morirebbe, non fosse che viene salvato da un cervo che potrebbe essere suo padre. L’orizzonte non si schiarisce, però, visto che anche il cervo-padre muore: il finale è tutt’altro che disneyano, con Bambi che rimane completamente solo, certo non circondato da un’allegra famigliola. La solitudine, come destino finale in caso di sopravvivenza.
Come un pogrom
Spiega Jack Zipes – traduttore dell’edizione 2022, per conto della Princeton University Press – che il romanzo “ha un significato molto profondo”, ossia che è “abbastanza evidente che si tratta di un’allegoria della situazione in cui all’epoca si trovavano gli ebrei”. Chiosa da parte sua il Guardian: “Mentre la morale del film Disney potrebbe essere che è sbagliato cacciare gli animali, il messaggio di Salten sembra essere più che altro che è sbagliato cacciare gli esseri umani”. E dice sempre Zipes che Salzmann-Salten era “perfettamente consapevole di ciò che accadeva agli ebrei nei pogrom. Quindi la mia interpretazione – e molti altri autori o critici se ne sono resi conto – è che Bambi in realtà non riguardava gli animali, ma gli ebrei o altri gruppi minoritari”.
A questo punto, nel racconto si inserisce la figura monumentale di Thomas Mann. Nel luglio del 1935, durante il suo viaggio negli Stati Uniti, l’autore dei Buddenbrook incontra nientemeno che Walt Disney. Nell’occasione (il conferimento di una laurea honoris causa, ad Harvard), Mann consiglia al papà di Mickey Mouse la lettura di Bambi. Pare che tre anni dopo, a Princeton, lo scrittore premio Nobel abbia nuovamente incontrato Disney, reiterando l’invito a portare il cerbiatto sul grande schermo (anche per dare una mano a Salten, che non versava in buone condizioni economiche).
Igienizzato, abbellito, americanizzato
Una storia un po’ contorta, come tutte le grandi storie, dato che Disney (qualcuno ricorda la sua associazione ad un gruppo di membri antisemiti della Motion Picture Alliance, ma non sappiamo quanto sia stato determinante questo fatto) decide di ignorare la sua natura di parabola antinazista (oppure non la legge come tale), e spoglia di ogni coloritura politica, depurando il film – che uscirà nel 1942 – degli aspetti più dolorosi. O per dirla ancora con le parole del Guardian, “igienizzandola, abbellendola e americanizzandola”. Bambi diventa pure un altro animale: da capriolo delle Alpi nella variante hollywoodiana si tramuta in cervo mulo della California, più commestibile per il grande pubblico americano (e, per estensione, globale).
In pratica, “Disney mutilò il romanzo”, taglia corto Zipes, che è anche professore emerito di letteratura tedesca all’Università del Minnesota. In un certo senso, il film è più ambiguo del romanzo: sulla pellicola l’antropomorfizzazione avviene attraverso gli occhioni del cervo e degli altri animali della foresta, nel libro è ben più profonda. A cominciare dal nome: Bambi è una derivazione della parola italiana “bambino”.
Bambi eugeneticamente modificato da Walt
Com’è, come non è, più o meno a cent’anni dalla sua nascita, il cerbiatto/cervo Bambi già preso a fucilate nel romanzo originario in un pogrom nel quale sono stati ammazzati anche la mamma e il cugino, poi bruciato sulla pubblica piazza nella Germania nazista ed infine “mutilato” ed eugeneticamente modificato dal grande Walt, è ancora, coi suoi occhioni grandi, una delle icone imperiture dell’universo disneyano. Tanto che pure la sua reincarnazione prossima ventura si annuncia duplice: un soffice live-action della stessa Disney e un Bambi in versione horror.
Dichiara sulfureo il regista Scott Jeffrey che Bambi “sarà una feroce macchina per uccidere che si nasconde nella natura selvaggia”, in un clamoroso capovolgimento della storia per come l’aveva pensata Salten-Salzmann. Da notare che Jeffrey sta collaborando con Rhys Frake-Waterfield, assurto alle cronache per un Winnie the Pooh truce e sanguinario (Winnie the Pooh: Blood and Honey, già bandito per eccesso di brutalità dai cinema di Hong Kong, dove l’ex orsacchiotto di peluche già metafora del Candide di Voltaire ammazza finanche la fidanzata dell’amato Christopher Robin).
Non pago, Frake-Waterfield si dice pronto a regalare alle platee anche un Peter Pan del terrore.
Pinocchio antifascista, Shrek è yiddish
Meravigliarsi è vietato, il mondo delle favole (sempre stato roba da killer, come insegnano quei proto-nazisti di Hansel & Gretel) si reinventa ogni giorno sempre di più. Ultimo in ordine di tempo il Pinocchio di Guillermo del Toro, dove il burattino se la vede con Benito Mussolini assurgendo pure lui a parabola antifascista senza perdere per strada il suo essere un alter ego di Gesù Cristo (figlio di un falegname e, de facto, di una creatura ultraterrena, ad un certo punto viene pure crocifisso).
Più in là, a fare storia è stato Shrek, l’orco verde della Dreamworks. Nella sua anti-favola, l’orco verde, il cui nome deriva da una parola yiddish che sta per “spavento”, viene inseguito a forconi né più né meno come in un pogrom, mentre una delle prime scene, quella in cui tutte le creature delle favole (ossia degli outcast, dei “diversi”, come gli ebrei) vengono messe in fila dinnanzi ad un ufficiale seduto ad un tavolo che li smista per deciderne i destini, ad un attento esame si rivela identica ad un passaggio cruciale di Schindler’s List di Steven Spielberg.
Sì, è il racconto dell’indicibile, il racconto della Shoah. Quella evocata (in anticipo) dal signor Salzmann per il suo Bambi.
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