Un fiorellino fucsia lanciato da dietro lo schermo. “Scusi, non so cosa stia facendo” afferma ridendo Antoneta Alamat Kusijanovićn mentre parla del suo bambino che, incuriosito dall’intervista alla madre, cerca di attirare la sua attenzione. Kusijanovićn è la regista di Stane, corto #26 della serie antologica di Miu Miu Women’s Tales che, dal 2011, commissiona ad altrettante registe due film presentati alle Giornate degli Autori, la sezione parallela della Mostra di Venezia. Totale libertà espressiva e un’unica desiderata: i costumi del film devono essere scelti tra le collezioni estate e inverno della casa di moda.
Stane, presentato il 3 settembre al Lido, è il racconto di una donna che, nel giorno dell’insediamento alla guida dell’azienda di famiglia, si ritrova ad affrontare il matrimonio, l’amore e il patriarcato. Kusijanovićn è nata Dubrovnik ma risiede a New York. Nel 2021 ha scritto e diretto Murina, opera prodotta da Martin Scorsese presentata alla Quinzaine des Cinéastes di Cannes dove si è aggiudicata la Caméra d’Or.
Da dove ha iniziato quando Miu Miu le ha chiesto di dirigere un cortometraggio?
Aspettando la loro collezione (ride, ndr). Il personaggio esisteva già nella mia mente. È stato ispirato dal tempo che ho trascorso a New York e dal fatto di trovarmi ai margini di quella comunità di immigrati che vive un po’ nell’ombra della città.
Parlando della collezione, come ha lavorato con la costumista?
Ho avuto molta libertà nella scelta dei costumi da parte di Miu Miu. Ed è stato fantastico, davvero, perché avevamo completa autonomia per pensare solo al personaggio e alla sua storia. Ed è ciò che è necessario per un film, che il costume sia completamente inserito nella storia e nelle persone che racconta. Quindi tutto ciò che abbiamo scelto lo abbiamo scelto nell’ottica di pensare a cosa effettivamente Stane avrebbe indossato nella sua vita e per quali motivi, come la farebbe sentire più potente o meno potente in certe situazioni.
E come ha lavorato dal punto di vista visivo?
Per me era molto importante che fossimo ancorati emotivamente a Stane come personaggio. E che potessimo capire le sue sfumature emotive reali, come cambiano le sue emozioni e la sua visione della famiglia e di questa mentalità – famiglia e comunità – in un così breve lasso di tempo. Era davvero importante seguire tutte le sue espressioni che a volte sono facciali, ma anche i suoi movimenti del corpo, le sue azioni e parole. La strategia era sempre che Stane ci motivasse e ci guidasse, tranne in alcune scene in cui ho deciso deliberatamente di essere un po’ fredda e mettere una situazione di status quo della famiglia e della tensione in un modo leggermente più oggettivo.
C’è una sequenza in particolare illuminata da una sfumatura di giallo, come il vestito che indossa la protagonista.
Posso solo ringraziare la mia direttrice della fotografia, Dariela Ludlow. Ha fatto un lavoro incredibile. Parlavamo di come la luce cambia durante la festa, verso la sua fine, diventando un po’ più cruda e fredda. Il giallo è un colore ancorato all’invidia e alla gelosia e viene visto anche come qualcosa di un po’ marcescente in una comunità. Questo era forse un pensiero più subconscio mentre pensavamo alle scene, ma Ludlow ha sicuramente fatto un lavoro così bello nel rendere consapevole questo subconscio attraverso la luce.
C’è una scena in cui la madre di Stane dice a sua figlia: “Tutte noi abbiamo rinunciato a qualcosa”. Crede sia il momento di dimostrare il contrario alla generazione che è venuta prima di noi, ma anche, e soprattutto, a quella che verrà dopo?
Questa è un’assoluta verità. Penso che sia molto interessante che, a volte, nelle culture dell’est Europa, oltre agli uomini che sostengono il machismo, molto spesso anche la generazione più anziane di donne facciano lo stesso. Mi chiedo se sia perché sentono che il cambiamento non le ha toccate, che hanno dovuto affrontare il peso di questa struttura sociale e per loro è ingiusto che cambi. Non penso che tutte le donne la pensino così, ma certamente ci sono donne che sentono questa disuguaglianza. Perché dovrebbe essere diverso per una certa generazione? Volevo giocare con questo. L’ho sempre trovato particolarmente doloroso.
L’unico personaggio maschile che realmente prende le parti di Stane è suo figlio. È una nota di speranza per il futuro?
Stane rappresenta sicuramente una nuova generazione. Oltre a prendere una diversa posizione e a guidare la propria vita e i propri desideri in modo diverso, la nuova generazione è anche responsabile di crescere un tipo diverso di uomo. E quando dico “nuova generazione”, non parlo solo di nuove donne, ma anche di nuovi uomini. Con quella scena volevo esprimere che ho una speranza e una fiducia incredibili in quella nuova generazione. Penso che a volte ci dimentichiamo che dobbiamo fare qualcosa per gli uomini quando sono bambini. Ed è una nostra responsabilità.
Dopo Murina, in Stane torna a lavorare con Danica Curcic. Perché era l’attrice perfetta per questo ruolo?
Sono rimasta davvero affascinata dalla sua energia, dalla sua dedizione e dal suo vero interesse nell’analizzare il personaggio e poi impersonarlo. È un’attrice incredibilmente curiosa e sprigiona energia da tutti i pori. Era sempre nella mia mente mentre stavo scrivendo l’idea per Stane. Stavo già pensando di scrivere questo film per lei.
Miu Miu Women’s Tales mette al centro le donne, davanti e dietro la macchina da presa. Ma quali sono state le registe femminili che l’hanno influenzata di più e quella che oggi ammira?
Ho sempre ammirato la stessa, ora come allora: Jane Campion. Ma ci sono alcune nuove registe incredibili. Una di loro è Alice Rohrwacher. Adoro il suo lavoro così come quello di Greta Gerwig. È davvero incredibile come nel momento in cui alle donne viene data l’opportunità di parlare e di essere distribuite in modo uguale e di lavorare con un budget quasi uguale a quello maschile la risposta sia enorme. Possiamo vederlo ora con Barbie. Sono così orgogliosa e incredibilmente commossa.
Cosa significa per lei essere una regista? Cosa vuole comunicare al pubblico?
E’ qualcosa che cambia sempre. E ogni volta che inizio a fare un film penso: “Oh, ora sono in questa nuova fase. E voglio esprimere questa nuova cosa”. E poi, guardando all’indietro ai miei lungometraggi e cortometraggi, ma anche allo stesso Stane, trovo sempre lo stesso tessuto connettivo, quasi gli stessi temi. Come persona è una traccia di qualcosa che emerge sempre nel lavoro. Poco importa che quel lavoro sia ambientato al mare o in un cantiere a New York. È sempre molto interessante. Mi piace credere che ogni volta sto facendo qualcosa di completamente diverso ma che, allo stesso tempo, è molto vicino a me.
Sta lavorando a un nuovo film in questo momento?
Sì, al mio prossimo lungometraggio. È sempre un processo molto doloroso scrivere. È quasi più facile tirarsi fuori un dente (ride, ndr).
Lei è croata ma vive a New York. Che ruolo ha avuto nella sua formazione?
Ho lasciato la Croazia quando avevo 21 anni. I miei anni formativi più importanti sono avvenuti a New York. È lì che ho scoperto che volevo dirigere film. Non è qualcosa che è venuto naturalmente in giovane età. È una consapevolezza arrivata molto tardi nella mia vita ed è stato attraverso il mio lavoro e le esperienze fatte a New York. È una città completa, sia per il mio circolo sociale di carriera, cultura e lavoro, che per la mia famiglia.
Lavorando anche nell’industria cinematografica americana, che opinione si è fatta degli scioperi di Hollywood?
Penso siano incredibilmente necessari e li sostengo completamente.
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