Ha cominciato a recitare dopo aver letto, a 19 anni, Il crogiuolo di Arthur Miller, comprato a una bancarella per 75 pence. Quarantatre anni dopo è ancora con Miller che lo scozzese Robert Carlyle – scoperto da Ken Loach nel 1991 con Riff-Raff – Meglio perderli che trovarli e diventato popolare dieci anni dopo con i cult Full Monthy – Squattrinati organizzati e Trainspotting – torna al cinema con The Performance, il film di Shira Piven presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma, tratto dall’ultimo racconto del leggendario drammaturgo americano.
Una favola nera dal sapore faustiano, storia di un gruppo di ballerini di tip tap di New York che nel 1936 vengono in Europa a cercare fortuna. Uno di loro, Harold May (un incredibile Jeremy Piven: sette anni di preparazione al ballo e otto costole rotte per il ruolo), ha un talento incredibile, pari alla sua ambizione. Notato da un impresario tedesco, Damien Fugler (Carlyle) con un sincero amore per l’arte, il ragazzo finirà per esibirsi a Berlino davanti a una persona “speciale”. Ma Harold è ebreo, e la persona speciale è Hitler: il prezzo del successo può essere fatale. “Il punto è questo – commenta Carlyle, in collegamento con THR Roma da Manchester, dove sta girando la serie Netflix Toxic Town – quanto lontano siamo disposti a spingerci per ottenere la popolarità, cosa faremmo per un attimo di gloria peronale?”.
Carlyle, Fugler si ispira a un personaggio realmente esistito?
Nessuno in particolare Anche perché Damien è una persona speciale. È un nazista (Carlyle ha anche interpretato il Führer, nel 2003, nella miniserie canadese Il giovane Hitler, ndr) ma anche un uomo di cultura, un artista che non ce l’ha fatta. Ha un sincero attaccamento per Harold, crede nel suo talento. Sul personaggio ho lavorato come sempre, mettendo insieme i pezzi e facendoli risuonare in modo autentico. Per quanto riguarda l’accento tedesco lo devo alla mia passione per il calcio: ho ascoltato su YouTube molti calciatori, ispirandomi al loro modo di parlare. E poi sono un grande tifoso del Liverpool, che è allenato da un tedesco, Jürgen Klopp. Ne so qualcosa.
L’arte, insegna il film, non è “innocente”. La politica guida le sue scelte artistiche?
Sicuramente l’ha fatto nella prima parte della mia carriera. Ero molto più interessato alla politica, allora. Ho girato un paio di film con Ken Loach (oltre a Riff-Raff anche La canzone di Carla, ndr), che è il regista politico definitivo, per eccellenza. Ma in generale direi che tutto ciò che fa Ken è politico. Anche quando non gira i film.
Sa che Loach si vuole ritirare?
L’ultima volta che me l’ha detto, che voleva mollare, gli ho risposto che nessuno glielo permetterà. Piuttosto lo chiudiamo in una teca, pur di conservarlo. Un uomo straordinario.
La politica, oggi, la interessa di meno?
Intendiamoci: se mi offrono due film, e uno dei due ha a che fare con i problemi della gente normale che prova ad arrivare alla fine del mese, sceglierò sempre quello. La mia coscienza politica è intatta. Ma quando si invecchia, e succede a tutti credo, qualcosa cambia. Non si scende più in strada a manifestare. Non si sventolano le bandiere. Ma il mio cuore batte sempre per le stesse cose.
The Performance si svolge nel 1937: 90 anni dopo, l’estrema destra risorge in Europa. La storia ci insegna qualcosa? Per il suo produttore, l’israeliano Daniel Finkleman, il tema è “estremamente contemporaneo”.
Basta guardare a cosa è accaduto venti giorni fa in Medio Oriente, per rendersi conto che da allora non ci siamo evoluti. Per niente. In Medio Oriente c’è una situazione a dir poco estrema. È persino difficile capire come si sia potuti arrivare a un simile livello. Chiaramente è un problema vecchio di 50, 60, 70 anni, e va sempre avanti allo stesso modo: sembra tutto tranquillo, poi ecco qualcosa che distrugge la pace. Quello che sta succedendo è tragico, una situazione drammatica, che mi fa soffrire. Per entrambe le parti.
Pensa che gli artisti si dovrebbero esporre di più per la pace?
Appena gli attori dicono qualcosa, in questi contesti, subito si scatena una serie di “ma che ne sai, con la vita che fai”, “non puoi capire”, e così via. Tilda Swinton mi pare che di recente sia stata aggredita da una massa di insulti di questo tipo, per essersi esposta (in favore del cessate il fuoco a Gaza, ndr) e sono certo che l’abbia fatto per una buona ragione. Tendo a pensare che dovremmo rimanerne fuori. Vogliamo lasciare che ci pensino i politici? Perché sarebbe questo, il loro lavoro.
E se in un futuro fossero le IA, a schierarsi a favore di una causa? Magari col volto di un attore.
È uno scenario terrificante e distopico. Forse sono troppo vecchio per capirlo, ma tutto il mondo delle IA mi agghiaccia. Non so come andrà a finire: non a caso le IA sono uno dei punti dello sciopero della SAG. Non credo che ce ne libereremo, ma penso che vadano controllate. Bisogna assicurarci che finiscano nelle giuste mani. Nessuno di noi ha voglia di vivere in un mondo controllato dai robot, giusto? Pazzesco, sono cose che abbiamo visto al cinema e in tv, e ora stanno diventando reali. Ed è molto, molto preoccupante.
Supporta lo sciopero degli attori di Hollywood?
Posso solo dire che al momento sono veramente dispiaciuto per un sacco di gente. In particolare per le troupe che lavorano negli Stati Uniti, che hanno debiti, mutui da pagare, e sono ferme da mesi. Sinceramente sono molto preoccupato per loro.
Compromessi in carriera ne ha mai fatti?
Non cose particolarmente importanti, e soprattutto nulla di cui oggi mi penta. La cosa più importante per me è sempre stata la mia famiglia, l’ho sempre messa davanti a tutto. Magari avrò perso delle opportunità, è probabile. Ma evidentemente non erano altrettanto importanti. Mia madre mi ha lasciato quando ero molto piccolo e mi ha cresciuto mio padre: una famiglia unita io non l’ho mai avuta e ne ho sofferto. Quando sono diventato adulto, ho capito che la famiglia era ciò che volevo. Ho incontrato la mia bellissima moglie, Anastasia (Shirley, ndr), con cui sto insieme da 30 anni: nel mio mestiere è una rarità. Poi sono arrivati i figli, e a quel punto mi sono sentito completo. Quindi no. Non ho mai preso decisioni inseguendo polarità o denaro. Ma sempre, e soltanto, il bene della mia famiglia.
Il suo mentore?
Loach, naturalmente, un uomo da cui ho imparato molto, in termini di onestà e integrità. E Danny Boyle. Qualsiasi cosa faccia oggi, penso a come l’avrebbe fatta lui. Sono due nomi estremamente ricorrenti nella mia vita.
A che punto è The Blade Artist, lo spin-off su Begbie, il suo personaggio in Trainspotting?
Saranno sei puntate da un’ora. Abbiamo scritto (Irivine Welsh è l’autore del romanzo, ndr) la prima stesura, fondamentale per dare il tono. Il libro è fantastico e perfettamente cinematografico, ambientato tra Los Angeles ed Edimburgo, con eventi molto oscuri. Sono elettrizzato all’idea di tornare nel personaggio. È la terza parte di una trilogia: Begbie nel primo film è giovane, nel secondo è un uomo di mezza età, qui lo scopriremo più anziano. Ma non è diventato più saggio, anzi. È un personaggio che amo molto. Quando abbiamo girato il primo film sapevamo che avrebbe avuto un buon seguito, soprattutto in Scozia, ma non avremmo mai pensato che sarebbe esploso nel mondo. E da allora Begbie è diventato una specie di ombra che mi segue ovunque vada. Gli sono estremamente grato.
Ora è su un set, quale?
Sono a Manchester per una serie Netflix, Toxic Town. Si ambienta a metà anni Novanta, a Corby, in Inghilterra. Nel Northamptonshire c’era una vecchia acciaieria che a un certo punto fu dismessa lasciando sul territorio un mucchio di materiale tossico. Lo smaltimento fu gestito malissimo e i rifiuti tossici causarono danni al cervello a più di 200 bambini. Una specie di Erin Brockovich in Inghilterra, in una terra contaminata.
Le manca un grande ruolo da blockbuster: in un villain Marvel, ci si vedrebbe?
Se lo dico non succede, sono superstizioso. Ma davvero mi ritengo fortunatissimo. Ho fatto Full Monty, sono stato un operaio e sono stato persino Hitler. Di opportunità direi che ne ho avute moltissime.
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