È la storia di una donna che a forza di coraggio e fantasia conquista il suo posto in un mondo ad alto tasso di testosterone. È un film tutto azione e adrenalina ambientato tra le marmitte e le impennate del “cross bitume”, una vietatissima pratica di moto acrobatica che dilaga nelle banlieue francesi. È un film sociologico che nasce da esperienze vissute, ma a dargli le ali è anche una robusta vena di fantastico, perché ogni sociologia esige la sua mitologia. È – soprattutto – uno dei migliori esordi visti negli ultimi anni, premio “coup de coeur” al Certain Regard di Cannes 2022. Tanto per ricordarci che oggi le registe francesi non sono solo le più numerose d’Europa e forse del mondo. Sono, spesso, anche le migliori. Parliamo di Rodeo e di Lola Quivoron, “donna, combattente, non binaria, lesbica”, parole sue, con una evidente passione per le questioni di genere. E una capacità non meno prepotente di tradurre i termini anche più sofisticati del dibattito in qualcosa di molto più immediato e accessibile. Corpi, ritmo, conflitto drammaturgico, azione. Insomma cinema.
Lola Quivoron, dai reportage all’esordio con Rodeo
“Sono sempre stata ossessionata dai film di moto e auto, le corse, la velocità, i piloti, l’asfalto, il rapporto tra la vita e la morte… tutto questo mi appassionava e mi appassiona anche perché è sempre declinato al maschile e davanti a questi film, o a quelli di gangster, non potevo fare a meno di chiedermi come sarebbero stati se avessero avuto al centro delle donne”, esordisce Quivoron, classe 1989 e una robusta serie di reportage fotografici, corti e documentari alle spalle tra cui un “premake” di Rodeo intitolato Au loin, Baltimore.
“Questa fascinazione deve qualcosa forse ai film che mi mostrava mio padre da ragazzina, anche se la cinefilìa è scoppiata più tardi, verso i 18 anni. Ma Rodeo nasce anche dall’aver visto da sempre sotto casa, alla periferia di Parigi, le acrobazie dei bikers, e dall’averli frequentati dal 2015 in poi. Accostarli non è stato difficile: considerano la loro pratica un’arte e adorano avere a che fare con giornalisti, fotografi o sportivi che possano aiutarli a condividere il loro mondo. Però fra di loro non ci sono donne e se ci sono se ne stanno a bordo pista. Rodeo deve molto a questa fantasia, volevo vedere una ragazza impennare in moto. E all’incontro con la protagonista Julie Ledru, scovata su Instagram, uno strumento prezioso per fare un film con attori quasi tutti non professionisti”.
Ledru, figlia delle banlieue
Fisico minuto, sguardo carico di sfida, rabbia e dolore, Ledru “è” da sola la metà del film. “Quando l’ho incontrata quasi non ci credevo”, riprende Quivoron. “Il suo account era “Inconnue du 95” (cioè sconosciuta del 95, il numero della Val d’Oise, banlieue Nord estrema). Julie viene dal cross bitume. La sua prima moto gliel’ha regalata suo fratello. Per il resto ha sempre dovuto fare tutto da sola. Con me si è aperta, si è fidata, senza fiducia non vai molto lontano, nella vita come nel cinema. Le sue storie, la sua mitologia, si sono fuse con le mie. Quando l’ho conosciuta lavorava in fabbrica, dove sostituiva sua madre. Oggi – credo – è un’attrice. Ma il suo personaggio, e tutto ciò che accade nel film, sono pura finzione”.
Anche se e una finzione nutrita da un’attenta osservazione della realtà. La tecnica beffarda e geniale con cui Julia ruba le moto, ad esempio, è ispirata a una serie di furti veri. “Ho avuto la fortuna di incontrare gli autori di questi “colpi”, andava proprio così, in tutti i dettagli, compresa la borsetta piena di sassi per abbindolare i venditori. Una vera e propria farsa politica basata sul travestimento e l’inversione dei ruoli”, che conviene scoprire al cinema. “Ma non è certo questa l’essenza di quell’ambiente, anche se a molti farebbe comodo per liberarsene senza tanti scrupoli. Pure la grande rapina che propone Julia viene dal cinema di genere, dagli “heist movie”. Ma a me interessava il suo farsi largo in questo mondo di machos che la temono, la detestano, la invidiano”.
Rodeo: i motociclisti come samurai
E la desiderano senza osare confessarlo nemmeno a se stessi, perché tutto farebbe Julia fuorché sottomettersi alla logica dello sguardo maschile. “Vedo Julia come un ronin, un samurai solitario, con la moto al posto della spada, mosso da un desiderio di famiglia che dovrebbe portarla verso la dolcezza, la solidarietà, la sorellanza. Per questo il personaggio di Ophélie (Antonia Buresi, attrice, collaboratrice allo script e compagna di Quivoron), la donna del capo che continua a dirigere tutto dalla prigione, è così importante. Perché è l’antitesi di Julia, colei che le consentirà di intravedere un orizzonte, una prospettiva, la speranza di tornare a essere nel legame, nella riparazione, nella trasmissione. Anche se il loro rapporto è ambiguo, tutto resta aperto. Ophélie è un po’ una madre vicaria, ma potenzialmente anche un oggetto del desiderio. Siamo in una sorta di balbettio amoroso, in un turbine di sentimenti non ben definiti ma che sono un possibile inizio… Anche se poi il determinismo sociale blocca tutto. In ogni caso non si può raccontare la violenza di un personaggio se non si racconta anche la sua dolcezza, la benevolenza, la tenerezza. In fondo speriamo tutti in un mondo più tenero. Era un equilibrio difficile da trovare. Per questo ci ho messo più di quattro anni a scrivere il film. Dovevo conciliare la mitologia della strada e del cross bitume con la mitologia transfemminista che è dentro di me, vista la società in cui viviamo. Anche perché per trovare il proprio posto prima o poi bisogna battersi, prendere le armi, almeno simbolicamente. E qui mi è venuto in aiuto il percorso personale di Julie Ledru, su cui ho praticamente riscritto il personaggio di Julia”.
Un manifesto femminista
Il film ha anche una seconda dimensione (da qui in poi: SPOILER), appena più nascosta, molto spettrale. L’ossessione della morte corre evidente fin dalle prime scene. Ma il finale, così potente, resta una sorpresa. Viene da chiedersi quando ha preso forma definitivamente.
“Molto presto”, risponde la regista. “Avevo da sempre in mente quest’immagine della fenice che rinasce dalle sue ceneri. Volevo sviluppare fino in fondo la linea fantastica del film. Che però a ben pensarci è sempre presente. Julie vede continuamente il fantasma di Abra” (il biker nero che le insegna come tenere la moto in verticale e pronuncia la battuta chiave: “You fly!”). “Ma è una presenza molto reale, molto fisica. Noi occidentali tendiamo a separare nettamente la vita e la morte, il sogno e la realtà. Ma secondo la filosofia taoista, che ho scoperto durante la pandemia con il Libro del vuoto perfetto, vita e morte sono due movimenti di una stessa sostanza. Tanto che in Giappone, dove ho avuto l’occasione di accompagnare il film, nessuno ha il minimo problema col finale”.
Un film d’azione che è anche un manifesto femminista. Un manifesto femminista che capta ancora una volta il potenziale incendiario delle banlieue francesi (pensiamo a cosa sta accadendo in questi giorni). Ma evita le strettoie del cinema sociologico e militante sospendendo il tutto in una dimensione intima e quasi fantastica. Ecco perché Rodeo non è un esordio come gli altri. Le leggi così rigide e troppo spesso miopi del nostro mercato lo hanno destinato a un’uscita estiva. Auguriamoci che trovi l’attenzione che merita.
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