Omaha Beach si bagna di sangue, sporcata dai corpi stremati dei soldati che boccheggiano sulla sabbia. Giovani e spaventati, mentre urlanti si scagliano contro i nemici durante lo sbarco in Normandia, gli elmetti punteggiano la riva, sparsi come i cadaveri dei caduti. Ventiquattro minuti di puro terrore quelli con cui Steven Spielberg ci accoglie – e ci turba – in apertura di Salvate il soldato Ryan. Ventiquattro minuti di suoni, urla, strepiti e orrore, i quali rievocano i fatti reali dietro alla messinscena. Il pubblico non può che rimanere scioccato dal sapere di trovarsi di fronte a un pezzo di Storia, restituito dalla regia di Spielberg con folgorante potenza.
È con sgomento che l’autore statunitense comincia, insieme ai personaggi, il suo viaggio nell’inferno alla ricerca della salvezza. Ed è attraversando la morte che il cadetto del titolo, il Ryan interpretato da Matt Damon, ritroverà la vita. Un giovane che, a differenza di tanti suoi compagni, riuscirà a sfuggire dal fango e dalla melma. Ma nulla più di quel principio, dopo che Spielberg ci ha mostrato le mani tremanti di Tom Hanks (nel ruolo di John H. Miller), rimane attaccato alla memoria dello spettatore, per uno dei più grandi film di guerra mai realizzati.
Dopo il chiasso delle esplosioni e la letalità dei proiettili, la genialità del regista arriva con un’inquadratura finale, che riempie di senso l’intera sequenza: una spiaggia piena di pesci morti, anche loro coperti di sangue, che affiancano e rinforzano la presenza dei soldati stesi sul litorale francese. Un’immagine indimenticabile, che riporta alla mente il meraviglioso verso del 1958 del poeta spagnolo Federico García Lorca: también se muere el mar.
Salvate il soldato Ryan, uscito nel 1998, venne nominato a ben dieci statuette ai premi Oscar 1999, vincendone cinque (miglior regia, miglior fotografia, miglior montaggio, miglior sono, miglior montaggio sonoro).
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