Sophie Thatcher, classe 2000, ha già esplorato diverse volte l’universo dei generi. È del 2018 l’anno del suo debutto al lungometraggio col gioiellino sci-fi Prospect, opera scritta e diretta da Zeek Earl e Chris Caldwell in cui recitava accanto all’ormai divo Pedro Pascal (The Mandalorian, The Last of Us). Ci sono voluti poi solo tre anni prima di conquistare il pubblico del piccolo schermo con un cult thriller tra le tinte dell’horror e del mystery. È Yellowjackets il fenomeno televisivo di Showtime, in cui recita la versione adolescente del personaggio di Juliette Lewis. Per Thatcher è arrivato il momento di dimostrare un’altra volta le sue doti da final girl, prestandosi all’ambiziosa trasposizione di The Boogeyman, opera tratta dall’omonimo romanzo breve di Stephen King, diretta dal giovane Rob Savage (Host, Dashcam). Il film è nelle sale italiane dal 1 giugno e l’attrice ci rivela i mostri che possono divorarci mentre siamo soli nella nostra quotidianità.
La sua protagonista dice alla sorella più piccola “smetti di avere paura dei mostri”. Secondo lei smettere di avere paura dei mostri equivale a crescere?
È una convinzione che Sadie, il mio personaggio, ha preso da suo padre (Will, interpretato da Chris Messina, ndr). È un terapeuta, non è un credente, ha i piedi piantati per terra e cerca in continuazione di allontanare i pensieri negativi. Ma nel film, il mostro è l’incarnazione di tutte le ansie. È l’incarnazione del dolore, quello che viene alimentato in famiglia. Può perseguitarti per tutta la vita. Bisogna scegliere bene le persone di cui circondarsi, e probabilmente in quel momento Sadie è estremamente turbata perché non riesce a trovare l’appoggio del genitore.
Quali mostri, invece, spaventano Sophie Thatcher?
Ricordi Slender Man? Ero piccola quando ne venni a conoscenza la prima volta e ricordo ancora quando i miei amici lo usarono per farmi uno scherzo spaventosissimo. Eravamo al luna park della nostra città, all’improvviso mi ritrovo dei messaggi sul telefono, erano loro che fingevano di essere Slender Man. Mi scrivevano “ti verrò a prendere”, che non potevo sfuggire. Ero talmente impaurita che a un certo punto ero convinta di averlo intravisto in lontananza tra la folla. Lo so che suona pittoresco, ma l’ansia può avere anche questo effetto.
Sono due volte che cita l’ansia. Non sarà mica un mostro anche questa?
Assolutamente sì. Credo che tutti vivano con l’ansia, ognuno in diversa misura. È un sentimento universale. E mi sembra sia ancora più radicata nel mondo post-Covid, tanto da essere diventata quasi la normalità. Prendiamo il mio settore: dicono che se si è sempre stressati significa che stai facendo un buon lavoro, ma non è così. Non va bene, non è salutare. È qualcosa che può divorarti.
The Boogeyman si concentra sulla perdita. Può essere semplicemente un film horror, ma può dare anche una sorta di conforto sul superamento del lutto. Il genere dell’orrore può avere il valore di insegnamento?
Trovo che i film horror siano talmente lontani dalla realtà da permetterci di vivere in un altro mondo. È ciò che preferisco del cinema. Con un buon film sei in grado di immergerti nell’universo dei personaggi. Non vuol dire che sia per forza confortante, ma può essere terapeutico. Come il fatto che The Boogeyman sia stato girato in ordine di scene, facendomi sentire sicura dell’arco narrativo attraversato dalla mia protagonista. Per questo mi sono sentita totalmente esausta quando abbiamo finito di girare, ho vissuto l’ultimo ciak come una liberazione, sia fisica che intima.
Tra le grandi doti di Stephen King c’è quella di tratteggiare i suoi protagonisti andando a toccarne le fragilità. Come la fa sentire essere parte dell’universo emotivo del re del terrore?
Far parte del mondo di Stephen King mi ha infuso enorme fiducia. È un narratore di talento, è talmente bravo da aver creato un proprio immaginario, rendendo credibili sia personaggi che le loro relazioni. Il fatto che The Boogeyman sia raccontato dal punto di vista di Sadie dà grande vulnerabilità alla storia.
Considerando la sua carriera, andando da Prospect a Yellowjackets fino a The Boogeyman, si ritiene un’attrice di genere?
Sono sempre stata attratta dal genere. All’inizio mi sentivo molto affine all’horror, col mio gemello abbiamo anche girato diverse opere dell’orrore. Come interprete, è un genere che ti offre un’ampia gramma di possibilità. Ma non voglio essere incasellata in nessuna categoria. Tanti interpreti straordinari hanno cominciato dall’horror e sono poi passati ad altri generi.
Durante le prime proiezioni con il pubblico si è parlato di tantissime urla da parte degli spettatori. Qual è stata la scena che l’ha spaventata di più?
Rob Savage, il regista del film, ha fatto un ottimo lavoro, sa come costruire l’attesa nel pubblico e questo è il suo più grande pregio. Ma più che spaventarmi, in verità, c’è stata una sequenza in cui mi sono fomentata, dove ho fatto davvero il tifo per Sadie. La protagonista viene chiusa da altre ragazze in una stanza al buio. Lei urla, dice di farla uscire, batte fortissimo i pugni sulla porta. Quando finalmente è fuori riesce a reagire e tira uno schiaffo alla ragazza che le ha giocato quel brutto scherzo. È stato un momento in cui si è rivelata davvero cazzuta.
L’ha appena citato, quindi non posso non chiederle: che ne pensa di Rob Savage? Sa che ben due suoi lavori fanno parte della lista dei film più paurosi di sempre?
È incredibile. È un’enciclopedia vivente dell’horror. Fin dal primo incontro mi ha spiegato che The Boogeyman non sarebbe stata un’opera dell’orrore qualsiasi, era intenzionato a farne il miglior adattamento possibile. Sul set sentivo ogni giorno la sua energia ed è stato gratificante lavorare con qualcuno che ha una visione così fresca del cinema, lontana dai soliti prodotti hollywoodiani.
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