“È la prima intervista che faccio per il film, sono un po’ emozionata”. Stefanie Kolk è una delle registe in concorso alle Giornate delle Autori con Milk. Un dramma dedicato a Robin, una giovane donna che, giorni dopo aver partorito un bambino nato morto, inizia a produrre latte materno. Non volendolo buttare via, Robin prende l’insolita decisione di offrirlo a chi ne ha bisogno. La ricerca di un luogo per la donazione, però, si rivela più difficile del previsto e, intanto, il suo latte inizia a invadere il congelatore, la sua relazione e la sua vita.
È molto interessante come ha rappresentato il dolore di Robin. La sua è una reazione molto delicata e composta…
Nel film racconto il dolore in generale e il dolore legato alla perdita di un bambino nato morto. Ho parlato con molte persone che avevano vissuto questo tipo di perdita. Alcune dopo il parto, alcune prima. E tra di loro qualcuno aveva donato il latte. Quello che mi ha colpito è che il dolore è una cosa estremamente personale e le persone lo vivono e ne parlano in modo molto diverso. A volte si ha quasi l’impressione che non si sia tristi come ci si aspetterebbe. È un aspetto che ho trovato molto affascinante e che suscita aspettative molto forti.
Crede che sia anche una questione anche legata alle aspettative sociali?
Sì, naturalmente il nostro è un pensiero influenzato culturalmente. Ci immaginiamo come dovrebbe apparire una madre in lutto. Sono aspettative alimentate e create dalla cultura ma anche dalla rappresentazione del dolore nei film. Quello che ho notato è che alcune donne addirittura giudicavano la propria reazione a causa di ciò che pensavano dovesse fare una madre in lutto. E volevo creare qualcosa riguardo, mostrare che il dolore restituire significato alle cose. Ed è per questo che nel film c’è spazio anche per momenti più leggeri.
Milk è ispirato all’esperienza di sua sorella e dalla conversazione con altri genitori che hanno vissuto la stessa esperienza. Hai trovato nelle loro storie un filo conduttore che li unisse tutti?
Sì. C’è un aspetto molto fisico nel dolore che le persone provano per un bambino nato morto. È una cosa che le unisce, nonostante le singole esperienze possano essere molto diverse. Ricordo una donna, la cui storia è diventata d’ispirazione per me, che aveva donato oltre sessanta litri di latte. Mi ha detto che tirare il latte ogni giorno le permetteva di riconnettersi al suo corpo e al suo bambino. Ma anche il pensiero che il suo latte avesse ancora un’utilità dava un po’ di significato a una perdita così dolorosa. E questa è stata una cosa che ho sentito da molte donne.
Di questi incontri ce n’è uno che l’ha colpita particolarmente?
Sì, una di loro ha posto la scelta di donare in modo interessante, quasi al contrario. Mi ha detto che l’idea che il suo latte non avesse alcuna utilità era un pensiero insopportabile. Mi è rimasto molto impresso. L’ho trovata molto coraggiosa. Per lei donare era chiaramente l’unica opzione. Ma era una scelta molto semplice. Non è stata una lotta con se stessa o il suo partner. L’ho trovato molto toccante e affascinante. Quindi suppongo che l’aspetto fisico sia quello unificante. E naturalmente ci sono anche molte persone che scelgono di non farlo, che non vogliono avere nulla a che fare con il latte. Si tratta della risposta specifica di una persona.
Di solito la gravidanza e tutta la narrazione che le gravita intorno riguarda le donne. Ma nel suo film si concentra anche sul dolore del partner di Robin. É stato importante per lei condividere con il pubblico anche le emozioni di un personaggio maschile?
Ricordo di aver letto un’intervista a Mil Melloy, una scrittrice da cui Kelly Reichardt ha preso ispirazione per molti dei suoi film. Disse di essere cresciuta con uomini molto sensibili e donne più forti e coraggiose. Questo non è del tutto vero per me, ma gli uomini nella mia famiglia sono molto emotivi. Mio padre è quel tipo di persona che inizia a piangere se si emoziona per piccoli dettagli. E questa è una cosa che ho riconosciuto molto nella fase di ricerca. Anche perché credo che l’aspettativa narrativa sia che l’uomo sarà contrario alla donazione. E questo è ciò che si aspettavano anche i produttori e i co-sceneggiatori. Come se lui fosse l’antagonista di questa storia. Ma quando ho incontrato i fidanzati e i mariti delle donne che donavano il latte sono rimasta davvero colpita da quanto fossero orgogliosi delle loro fidanzate e mogli. Per me fa anche parte dell’emancipazione degli uomini. E hanno bisogno di questi esempi al cinema. Devono riconoscersi in un uomo che piange perché ha perso un bambino o che è gentile e rispetta una donna.
Un altro aspetto molto interessante è quello del gruppo di supporto. Mostra delle persone che hanno deciso di guarire insieme, ma in silenzio. Dobbiamo imparare di nuovo ad ascoltare, prima di tutto noi stessi?
Sì, sicuramente. Qualcosa che mi affascina da molto tempo è questa idea di trascorrere del tempo e uno spazio insieme per condividere un’esperienza senza l’uso di parole. Sono piuttosto verbosa, ma per me è un aspetto importante di come ci si rapporta l’uno con l’altro anche solo guardandosi. Capire se ci si può fidare o meno. E non è qualcosa che ottieni davvero attraverso il parlare. Ho immaginato Robin camminare in questo gruppo di cammino silenzioso e ho iniziato a cercare se ne esistesse davvero uno. Nei Paesi Bassi c’è un gruppo di cammino per tutto (ride, ndr). Ho partecipato ad uno legato al lutto e ho trovato che esemplificasse questa semplice necessità di stare insieme e non necessariamente di parlare. Anche se amo parlare, ho sentito che esemplificava qualcosa di importante per me, specialmente in relazione al lutto.
Tutto il latte che Robin raccoglie diventa una presenza ingombrante nella sua vita. A volte divertente, a volte dolorosa. Pensa che debba darlo via anche per andare avanti con la sua vita e chiudere un capitolo?
Sì, ed è legato anche al quale tipo di finale che volevo per questa storia. Lo lascio aperto perché non c’è una fine naturale al lutto. Continua semplicemente per sempre. Ma sentivo che fosse giusto che il latte fluisse. Che non restasse fermo in un congelatore perché i sentimenti non devono scomparire, ma devono essere sentiti, devono muoversi.
Milk è anche una storia di supporto femminile. C’è una donna che soffre e altre donne che stanno vivendo una delle gioie più grandi della loro vita. Pensa che quello che fa Robin sia anche un atto d’amore nei loro confronti?
Non è così facile decidere di fare qualcosa del genere. Anche qui mi torna in mente la donna che mi disse che non sopportava l’idea che il suo latte non sarebbe stato utilizzato. Quando perdiamo qualcuno c’è l’amore che avremmo avuto per quella persona che deve andare da qualche parte. Penso che donare sia come un bisogno umano fondamentale, ma quel dare dipende anche un po’ dalla tua visione del mondo. Si potrebbe anche vedere come una sorta di fame e di impulso proiettato più su te stesso che sull’altra persona, ma penso sia una fame bellissima.
Spera che il suo film possa dare sollievo a una donna che ha vissuto lo stesso?
Sarebbe meraviglioso. Penso che sia importante sentire che anche le reazioni più complesse o meno attese al dolore abbiano uno spazio nei film e nelle storie.
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