Il secondo film da regista di Viggo Mortensen, il western The Dead Don’t Hurt, è dedicato alla sua defunta madre, Grace Gamble Atkinson, che poeticamente sopravvive in qualche modo nella protagonista del film, Vivienne Le Coudy, donna dalla feroce indipendenza interpretata da Vicky Krieps.
“Vivienne non è una donna prodigio. Ma è molto forte, ha una resistenza intima, anche se è costretta a subire soprusi. È una donna del suo tempo. Sì, c’è una forza di carattere, non che si assomiglino”, afferma Mortensen a proposito di Krieps e di sua madre, che ha ispirato la storia originale del film quando un’immagine di Gamble Atkinson da bambina è venuta in mente alla star de Il signore degli Anelli mentre era alla sua scrivania durante la pandemia.
In The Dead Don’t Hurt, presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival e ambientato negli anni Sessanta del XIX secolo, Krieps interpreta Vivienne, che inizia una relazione con l’immigrato danese Holger Olsen (Mortensen). Dopo aver conosciuto Olsen a San Francisco, Vivienne accetta di viaggiare con lui fino alla sua casa vicino alla tranquilla cittadina di Elk Flats, dove iniziano una vita insieme. La guerra civile li separa, lasciando Vivienne a cavarsela da sola in un territorio controllato dal potente allevatore e proprietario di un ranch Alfred Jeffries, interpretato da Garret Dillahunt, e dal suo violento e ribelle figlio, Weston (Solly McLeod).
Mortensen vede in The Dead Don’t Hurt una storia d’amore tragica e di vendetta, ma anche un western femminista, con la storia di una donna appassionata e determinata a farsi valere in un mondo spietato, dominato da uomini senza scrupoli. The Hollywood Reporter ha parlato con Mortensen del suo secondo lavoro da regista dopo l’apprezzato esordio Falling – Storia di un padre, dell’ottenimento di una deroga SAG-AFTRA per garantire a lui e a Krieps la possibilità di andare a Toronto per la prima mondiale e delle prospettive di una vendita a Toronto alla Hanway Films nel contesto degli scioperi di Hollywood.
Ci può parlare di come The Dead Don’t Hurt sia stato ispirato dalla sua defunta madre, Grace Gamble Atkinson?
La storia del film è nata da un’immagine che avevo di mia madre durante la pandemia. All’epoca mi trovavo a Madrid, uno dei posti peggiori durante il lockdown. L’isolamento era così rigido che non si poteva andare a più di 250 metri da casa propria. È stata dura. Ho scritto un paio di storie e questa – non sapendo che sarebbe diventata un western – è nata da questa immagine iniziale di mia madre. Ho una collezione di libri illustrati per bambini che erano suoi quando era piccola. Amava queste storie e dove era cresciuta, nel nord dello Stato di New York, proprio al confine con il Canada, c’erano foreste di aceri dove lei scorrazzava. Ho immaginato questa bambina, mia madre, che correva nei boschi. Ok, cosa succede in questa storia, una bambina che immagina cose. Quindi, la storia inizierà con la bambina che è diventata una donna, letteralmente alla fine della sua vita, e vedrò dove mi porterà.
Il film si muove dal futuro al passato. Perché questa struttura narrativa?
Con una struttura di questo tipo, come lei ha sottolineato, quando Olsen se ne va e Weston, da vero gentiluomo, arriva in giardino per farle visita senza essere invitato, ma in modo molto educato, il pubblico potrebbe pensare: “No, no, no! Non parlare con lui!”. Mi piace che il pubblico sia più informato, che sia più avanti rispetto ai personaggi. Hanno un ruolo nella storia. È la loro storia, non del regista. Mi piace che si dia loro una struttura, una possibilità di dire, durante la narrazione della storia, “Ok, sì, questa è la mia storia. So cosa sta accadendo qui e, porca miseria, ora che succede? Oh, è meglio che stia attenta”.
Vicky Krieps è la vera protagonista, cosa insolita in un western. Lo considera un western femminista?
Sì, credo che il film parli da solo. La sua interpretazione è straordinaria. Ha una grande forza interiore. Vicky, in questo ruolo in particolare, è davvero perfetta. Si percepisce come una donna in quell’epoca. Non credo sia necessario sottolinearlo. È solo una storia che si dà il caso sia insolitamente incentrata su una donna molto forte. Ma non sto facendo del revisionismo. Sì, la struttura è ambiziosa e diversa. Ma l’idea è quella di realizzare un western classico. E invece di avere sempre l’uomo che va in guerra e tu sei con lui in guerra e lei rimane un elemento secondario e poi lui torna da lei e lei reagisce – in questo caso, lui se ne va e noi non lo vediamo. Restiamo con lei. Questa è una storia su ciò che accade alla donna, su come affronta le cose e su cosa deve affrontare. Com’è la sua vita, da sola? Quindi sì, si può dire che è un western femminista. Ma non mi piace etichettare le cose.
Il film segue Vivienne in solitudine, mentre Olsen è in guerra. Pagherà cara la sua testardaggine e la sua autosufficienza?
Sicuramente paga molto, perché lei è così. A un certo punto, dopo che è successo il peggio, dice: “Al diavolo, me ne vado”. E quasi se ne va. Ma c’è qualcosa in lei, chiamatelo orgoglio, chiamatelo forza interiore. Ma questo non è un film di supereroi. Non ha intenzione di comprare un mucchio di Winchester e andare a uccidere la famiglia Jeffries, il sindaco e tutti i loro scagnozzi. Pensa invece: “Non mi faranno paura. Tornerò al lavoro”.
La caparbietà di Vivienne di fronte alla violenza brutale e alle intimidazioni deriva più dalla sceneggiatura o dall’interpretazione di Krieps?
Da Vicky, ed è per questo che speravo che la storia le piacesse e che volesse farlo. È grintosa. Ed è una bellissima persona, molto gentile e operosa. Ma ha idee precise. Non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. Quindi era assolutamente perfetta per questo personaggio. È quello che speri sempre. Scrivi qualcosa e speri che gli attori dicano: “Sì, ho letto la tua storia. È interessante. Mi piacerebbe aiutarti a realizzarla”. Poi, quando ti capita una persona come lei – e tutti gli attori, direi – quello che speri è che le persone si presentino sul set e ti sorprendano, ti diano più di quello che ti aspettavi. E devo dire che Vicky e gli altri attori, ma soprattutto lei come centro della storia, sono arrivati con quello che definirei un regalo ogni giorno. Mi dicevo: “Wow, non immaginavo che la frase potesse essere pronunciata in quel modo”. O il modo in cui mi ha guardato. Anche mentre recito la parte, penso: “Non me l’aspettavo. È ancora più incredibile di quanto avessi immaginato”.
Ha detto che l’idea del film è nata durante la pandemia…
Ed era il periodo in cui doveva uscire Falling. È stata dura. Dopo il Sundance, siamo stati invitati a Cannes e poi a Toronto. Eravamo sulla buona strada. Poi la pandemia, niente Cannes e sono rimasto bloccato a casa mia.
E ora The Dead Don’t Hurt è stato lanciato nel bel mezzo degli scioperi di Hollywood, con un’altra chiusura dell’industria.
Ho pensato: “Ci risiamo. Prima la pandemia e ora questo?”. Credevo che non saremmo andati da nessuna parte, a meno che non avessimo un accordo SAG-AFTRA, cosa che abbiamo fatto, così che Vicky possa andarci, e ci andremo. È difficile, perché se non hai i requisiti, non potresti andare.
Con la deroga della SAG-AFTRA, è possibile partecipare e promuovere il proprio film a Toronto. Ma qualsiasi potenziale acquirente di The Dead Don’t Hurt dovrà attenersi ai termini di un eventuale accordo tra gli attori di Hollywood e l’Amptp, come i pagamenti residui per gli attori e i proventi dello streaming. Le va bene?
Chiunque compri questo film dovrà ovviamente accettare l’accordo. Io, come produttore, non approverei mai qualcosa di diverso, assolutamente. Faremo le cose per bene, fino in fondo. Se non vogliono, dovremo cercare qualcun altro. È così che vanno le cose.
Ora sta per presentare in anteprima il suo secondo film a Toronto. Quanto è emozionato?
Ho sempre pensato che Toronto fosse speciale per il pubblico. Come attore, come produttore, con Falling come regista, anche se ho dovuto partecipare su Zoom a causa della pandemia, e con un paio di altri film che ho prodotto a Cannes è stato meraviglioso e a Venezia è fantastico. Ma qui non importa quanti uomini d’affari ci siano e quanto sia grande, le persone che comprano i biglietti per questi film sono davvero appassionati di cinema. Vogliono vedere i film. Le domande e risposte, l’interazione con il pubblico, sono sempre fantastiche. E abbiamo girato una parte del film in Canada, quindi c’è un legame con questo paese.
Traduzione di Pietro Cecioni
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