“Questa mattina stavo vedendo Risate di gioia di Mario Monicelli con Anna Magnani. Non l’ho ancora finito, ma è sorprendente”. Alexander Payne ogni tanto parla in italiano quando THR Roma lo incontra per parlare del suo nuovo film The Holdovers – Lezioni di vita, dal 18 gennaio al cinema con Universal. Il ritorno del regista dietro la macchia da presa a sei anni di distanza da Downsizing grazie a una sceneggiatura firmata da David Hemingson che racconta l’incontro di tre solitudini tra le mura della Burton nel 1970, prestigiosa scuola americana per ragazzi.
Quella del burbero professore Paul Hunham (Paul Giamatti, vincitore del Golden Globe e del Critics Choice Awards), costretto a rimanere nel campus durante la pausa natalizia per seguire un gruppo di studenti che non ha un luogo dove passare le feste, quella di uno di loro, Angus (l’esordiente Dominic Sessa), e della responsabile della cucina della scuola Mary (Da’Vine Joy Randolph, vincitrice del Golden Globe e del Critics Choice Awards) che ha appena perso un figlio in Vietnam. Un film “piccolo” per gli standard produttivi statunitensi che ha messo d’accordo tutti, pubblico e critica, e che è già puntato in direzione degli Oscar.
La sceneggiatura di David Hemingson parla della guerra del Vietnam in modo molto toccante e intimo attraverso la morte del figlio di Mary. Come ha lavorato per far risuonare nel film queste parole, visivamente ed emotivamente?
Come ho fatto? Devo ripensarci. Forse lei ha visto il film più recentemente di me (ride, ndr). Non saprei. Penso a quella piccola sequenza che inizia con un’inquadratura del violoncello che lui suonava e non suonerà mai più. Un violoncello muto da cui l’inquadratura si allontana e rivela la sua stanza così piena di speranza e di promesse che rafforza ancor di più quanto fosse ancora un bambino, un ragazzo. Solo alla fine si vede bandiera americana piegata a triangolo, che è quella che ti danno ai funerali militari.
E poi viene inquadrata Mary, da sola, impegnata a fare un puzzle. Come se cercasse di mettere insieme i pezzi della sua vita. Penso che non ci siano parole in questa sequenza, ma solo musica. Mi piace che il film parli molto di angoscia. Tutti e tre i personaggi principali ne hanno una personale che li tortura e che affrontano durante questo malinconico e solitario periodo natalizio. Credo che in questo senso anche la musica del film aiuti.
In quest’ottica come ha lavorato con Da’Vine Joy Randolph per far emergere le emozioni del suo personaggio, specialmente nei momenti di silenzio?
Alcuni di quei momenti sono i più importanti del film. “Bla, bla, bla, bla, bla”. Chi ha bisogno di parole? Bisogna osservare le persone e il comportamento umano. Trovo che Da’Vine sia bravissima nella sequenza in cui mette i vestitini del figlio nel cassetto per il futuro nipote. Non le ho dovuto dirle nulla. Solo dettagli tecnici. Sapeva esattamente cosa fare.
Grande scrittura, grande regia, grandi attori. The Holdovers ha tutti gli elementi per essere un buon film al posto giusto. Ha la sensazione che non sia sempre cosi nel cinema contemporaneo?
Forse è per questo che guardo soprattutto vecchi film (ride, ndr). Non vorrei criticare i nuovi. Non posso nemmeno farlo perché non ne vedo molti. Guardo soprattutto quelli vecchi. Ci sono troppi gioielli nel passato. Ogni volta mi siedo e penso: “Oh, dovrei guardare Succession. Tutti guardano Succession!”. Poi mentre sto per premere play mi dico: “Ci sono ancora tutti questi vecchi film che non ho visto!” (ride, ndr).
Qual è l’ultimo che ha visto?
Provo questa mattina stavo guardando un vecchio film del 1960 di Mario Monicelli, Risate di Gioia, con Anna Magnani. Non l’ho ancora finito, ma è sorprendente.
Il suo film sta avendo un grande riscontro, sia da parte del pubblico che della critica. Cosa crede che le persone amino del suo film?
Non sta a me dirlo. Ma riferirò ciò che ho sentito e osservato. Le persone vengono da me e mi dicono: “È così bello vedere un film che mi fa sentire bene alla fine”. E io rispondo che probabilmente è bello vedere un film che ti fa sentire bene. Ma anche semplicemente “sentire” qualcosa (ride, ndr). Mi dicono anche che è un film in cui hanno riso e pianto. E questo è molto gratificante da sentire.
Dominic Sessa è una vera rivelazione. Sembra che faccia cinema da sempre. Eppure questo è il suo primo film. Cosa l’ha colpita di lui e cosa crede il suo sguardo così fresco abbia portato al personaggio?
È stato un miracolo averlo trovato. Proprio nel momento storico in cui stavo girando un film ambientato in un collegio, trovo una versione del ragazzo perfetto che frequenta il liceo in una di quelle scuole d’élite! Ha talento innato dato da Dio e che sgorga da lui. È molto giovane, ma ha una certa profondità come essere umano. In più ha un aspetto interessante. Per questo personaggio è bello che il volto del ragazzo riveli qualche danno, qualche tratto psicologico. Ha un aspetto un po’ tormentato, le occhiaie e il modo in cui si presenta nello spazio è interessante. E aveva il tipo di volto che volevo vedere aiutato o guarito dalla storia che il film stava raccontando.
Il volto di una persona nel cinema è molto importante per via di ciò che vi si proietta. Ad esempio, per il cinema italiano Monica Vitti è stata una delle più grandi attrici di sempre. È stata un’attrice straordinaria? Sì, ma la realtà è che aveva un volto sul quale si potevano proiettare molte cose. E quando si ha una certa profondità e un certo talento nella recitazione il risultato è esplosivo. Se si ha anche un volto per il cinema allora è una tripletta. E in più Dominic è italo-americano (ride, ndr).
The Holdovers è il suo primo film d’epoca. Si è divertito a tornare indietro con la memoria all’inizio degli anni Settanta? Anche nel modo in cui muove la macchina da presa.
Sì, moltissimo. Abbiamo affittato un cinema e guardato sei vecchi film di quel periodo. Non tanto per emularne qualcuno, ma semplicemente per essere consapevoli di quello che facevano i nostri contemporanei. Perché stavamo facevamo finta di fare realmente un film nel 1970. In termini di preparazione all’uso di quel linguaggio cinematografico, credo che tutti i miei film siano stati realizzati in modo piuttosto antiquato. Solo che per The Holdovers mi sembrava ancora più vero per via del trucco che stavo cercando di mettere in atto per farlo sembrare e suonare come un film fatto all’epoca.
Dopo l’esperienza sul set di Downsizing aveva bisogno di realizzare un film con meno effetti speciali e che sentisse più reale?
Nel film circa l’80% della neve è reale. Ma devo ammettere che a volte abbiamo dovuto aggiungerne altra digitalmente. Inoltre ci sono effetti visivi anche per far sembrare Boston una città degli anni Settanta rimuovendo degli edifici e altri aspetti contemporanei. Ma capisco il suo punto di vista sul fatto di fare un film con effetti visivi come Downsizing e poi voler fare qualcosa di diverso. Anche se non è stata una reazione diretta perché ogni film è diverso.
Ha dichiarato che il suo prossimo film sarà un western, il genere cinematografico americano per eccellenza.
Sì. Insieme al musical. Lo sto concependo ora. Non abbiamo ancora iniziato a scrivere, ma con David Hemingson abbiamo un’idea. Anche se è troppo presto per condividerla. Credo che all’inizio il western fosse una propaganda del bene sul male. Ma quando si arriva agli anni Cinquanta, con il malessere del dopoguerra che stava contagiando lo spirito, come si vede nei film noir, tutto si estende anche ai western. In particolare quelli di Anthony Mann, che sono western molto diversi rispetto a prima della guerra. E poi, negli anni Sessanta, arriva il revisionismo dei registi italiani fino agli anni Settanta con gli americani hanno usato i western, compreso Il piccolo grande uomo di Arthur Penn, come metafore del Vietnam. È una forma davvero interessante da seguire attraverso la storia. Poi è passato in secondo piano e non sappiamo più davvero cosa sia un western.
Tornando a The Holdovers: è consapevole che il suo film è diventato un classico natalizio?
Beh, lo scopriremo davvero solo il prossimo Natale (ride, ndr).
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