La neve compatta e croccante, gli addobbi, il coro delle scuola, il profumo delle colazioni servite in grandi aule in legno e il fermento che precede la partenza. Alla Barton Academy, istituto scolastico per ragazzi di famiglie facoltose, sono tutti pronti per le vacanze natalizie. Due settimane di svago, niente guerra del Peloponneso o calcoli di algebra. Ma il professor Paul Hunham (un grande Paul Giamatti) non la pensa così. Ai suoi studenti ha riservato una sorpresa: un test di recupero post-festività che li costringerà a mettere più di un libro in valigia. Una punizione, secondo i ragazzi. E di punizioni nel corso di The Holdovers – Lezioni di vita, film diretto da Alexander Payne presentato al Torino Film Festival e presto in sala con Universal Pictures, ce ne sarà più di una.
Anche per l’incorruttibile e severo professor Hunham, costretto a trascorre il Natale nell’istituto con un piccolo gruppo di allievi “parcheggiati” lì dalle rispettive famiglie. Una vendetta per averne bocciato uno dal cognome altisonante. Dopo qualche giorno di convivenza forzata però, il gruppo diventa un terzetto. Sotto la responsabilità di Hunham rimane solo Angus Tully (la sorprendente rivelazione Dominic Sessa), uno studente brillante ma difficile su cui pesa la minaccia dell’accademia militare. Con loro Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), la cuoca della Barton che ha appena perso il figlio in Vietnam.
The Holdovers: l’incontro di tre solitudini
Scritto da David Hemingson e ambientato nel New England del 1970, The Holdovers è uno di quei titoli da prendere ad esempio per chiunque voglia fare cinema. Uno di quei film senza note stonate o cali narrativi. Un racconto pieno di solitudini, dolori intimi e chiusure emotive che lentamente si sciolgono come la neve sotto al sole di dicembre. Paul Giamatti al suo professor Hunham, tutto cinismo e Jim Beam, infonde una tale quantità di sfumature da renderlo istantaneamente memorabile. Pipa, papillon e un animo “amaro e complicato” come il mondo. Dominic Sessa, al suo debutto sul grande schermo, sembra già un attore consumato tale è l’intensità della sua prova. E poi c’è Da’Vine Joy Randolph che, tra vestaglie e tazze di vino, nel ritratto di una madre dal cuore spezzato regala una delle performance più belle dell’anno.
Lenti movimenti di macchina e zoom repentini ai cui la fotografia di Eigil Bryld infonde tutta la profondità della pellicola (nonostante sia stato girato in digitale) per il primo film in costume di Alexander Payne che sembra realmente uscito a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e Settanta. Elegante e riuscita la scelta di raccontare la guerra solo con dei piccoli dettagli, che sia una fotografia incorniciata o la carezza a una divisa militare riposta nell’armadio. Girato quasi esclusivamente all’interno della Burton, il film ha nella sua seconda metà un’apertura che coincide con quella emotiva dei personaggi che permettono di scrutarsi a vicenda dietro le armature invisibili costruite per difendersi da dolori e delusioni.
The Holdovers, in poco più di due ore, riesce a fare quello in cui tanti altri film falliscono, creare cioè un legame autentico tra i suoi personaggi e il pubblico. Un film classico americano nell’accezione più nobile del termine. Risate fragorose e lacrime silenziose. Tutto quello che dovrebbe essere il cinema.
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