L’appuntamento è al primo piano di un’elegante palazzina all’inizio di via Veneto, sede della Casa argentina, centro culturale attivo nel promuovere la cultura del paese sudamericano a Roma. Sul palco di una sala proiezioni, con file composte di sedute in legno, due poltrone e un cartonato che riproduce il poster di Upon Entry – L’arrivo, opera prima della coppia ispano-venezuelana Alejandro Rojas e Juan Sebastián Vásquez – dal 1° febbraio al cinema con Exit Media – con protagonisti Bruna Cusí e Alberto Ammann.
L’attore, maglione color ruggine, pantaloni a costine verde scuro e un cappotto dalla tonalità cammello, beve una tazza di caffè lungo mentre risponde alle domande di THR Roma. Basato sulle esperienze biografiche dei registi, il film racconta la storia di una coppia composta da Elena (Cusí) e Diego (Ammann).
Lei è catalana, lui venezuelano. Dopo aver convissuto a Barcellona decidono di trasferirsi negli Stati Uniti con il sogno di una nuova vita. Ma già nell’area immigrazione dell’aeroporto di New York affiorano i primi problemi con le autorità. La coppia viene sottoposta ad un estenuante interrogatorio da parte degli agenti di frontiera che cercano di scoprire se la coppia ha qualcosa da nascondere, mettendo così a repentaglio il loro sogno.
Che tipo di conversazione c’è stata con Juan Sebastián Vásquez e Alejandro Rojas? Entrambi venezuelani come il suo personaggio e quindi consapevoli del tipo di trattamento a lui riservato nell’area immigrazione dell’aeroporto.
Il rapporto è stato ottimo fin dal primo momento. Abbiamo fatto solo due prove con Bruna Cusí, e in una di queste erano presenti anche loro. Li guardavo e nella mia testa pensavo: “Non sanno davvero come vogliono il personaggio”. Erano i miei pregiudizi. Poi sono andato a parlare con loro e ho capito che ci stavano solo dando il nostro spazio creativo. Una cosa che, da attore, apprezzo molto. Per quanto riguarda, invece, la questione del personaggio, la sua sensazione di sentirsi escluso, io sono argentino ma sono un immigrato che vive a Madrid. Anche se ho la doppia nazionalità, argentina e spagnola.
Ma riconosco di essere stato discriminato in qualche momento, con grandi differenze rispetto a come vengono discriminati i fratelli boliviani o peruviani nella stessa Spagna o in Argentina. Ma quello che era chiaro per me è che avevo un legame con questo personaggio: difenderlo come essere umano i cui diritti, intimità e privacy sono stati violati.
Nella prima scena del film dalla radio di sente parlare di Trump in relazione alla costruzione di un muro lungo un confine. L’Argentina ha un nuovo presidente, Javier Milei, che è stato paragonato al tycoon per le sue esternazioni ed idee politiche. Che idea si è fatto?
Penso che siano bambini arrabbiati. Sono personaggi nevrotici che hanno bisogno di andare da uno psichiatra. Sono come dei bambini che fanno capricci e vengono usati dai grandi signori del potere per metterli lì a fare quello che vogliono. In pratica, sono dei burattini. Mi vergogno di avere come presidente uno che esce con una motosega, sbraita, dice che vuole tagliare tutto e vince. Mi sembra una cosa ridicola. Ridicola.
Secondo lei per quale motivo ci sono persone che li seguono? Trump, nonostante le incriminazioni, continua ad avere un forte seguito.
Credo sia perché tra la gente che governa il mondo – cioè i diversi paesi, le grandi imprese – c’è un alto livello di psicopatia, di sociopatia. E per questo c’è una profonda malvagità. E credo che sia Trump che Biden siano due facce della stessa medaglia. Durante la presidenza di Obama, presa ad esempio come paradigma di un certo momento di libertà, sono stati utilizzati per la prima volta i droni per uccidere le persone. Gli è stato dato un premio Nobel per la pace quando la sua presidenza è stata quella che ha ucciso più persone in Medio Oriente e ha fatto i respingimenti più rilevanti verso il Messico. È tutta una farsa, secondo me, mirata a dividere le persone.
Com’è stato il lavoro con Bruna Cusì. Avete delle scene condivise, ma, a un certo punto, i vostri personaggi vengono separati e solo gli spettatori sanno davvero cosa sta succedendo in parallelo nelle loro vite.
È stato un lavoro individuale. Con Bruna abbiamo provato per due giorni. Il primo abbiamo immaginato le possibili scene di vita quotidiana di questa coppia. Non c’era nulla di scritto. È stato come creare quello che c’era prima, il loro passato. E poi, il secondo giorno, abbiamo provato alcune scene, ma non molto di più. Naturalmente, l’attore sa cosa succede. Ma il personaggio non lo sa.
Mi immagino, allontanandomi dall’attore e mettendomi alle sue spalle – anche per far sì che il mio ego sia in secondo piano rispetto al personaggio – di essere in un certo senso burattinaio di me stesso, di mettermi nell’ombra. E far si che sia questo ragazzo, che ho creato con caratteristiche specifiche, a provare incertezza, dubbi, paura. Che guardi e cerchi di rendersi conto di quanto lo circonda, valutando le diverse possibilità. Anche se l’attore, a differenza sua, sa cosa è successo.
Nonostante negli Stati Uniti ci sia una fortissima crisi economica, sociale e culturale, le persone continuano a credere nel sogno americano. Anche gli attori che guardano ad Hollywood come ad una sorta di El Dorado. Perché, secondo lei, è ancora così?
Penso che gli Stati Uniti abbiano fatto di Hollywood un biglietto da visita per presentare i propri valori. È, tra virgolette, anche un’arma culturale. E ci hanno investito un sacco di soldi. Penso che ci siano cose positive e cose che, per me, sono negative. L’aspetto positivo è che hanno creato un luogo dove la gente vuole andare – sceneggiatori, produttori, registi e naturalmente attrici, attori e tecnici. E il livello a cui si sono spinti, grazie ai soldi che hanno investito, ha creato un materiale di buona qualità.
Se pensiamo agli inizi di Hollywood, all’epoca dei musical e quando è iniziato il cinema più politico, prima della caccia alle streghe di McCarthy, c’era un aspetto sociale molto interessante nel cinema. Il grande investimento economico ha permesso che si formassero delle ottime professionalità, grandi registi, produttori, sceneggiatori. Il livello è talmente alto che le persone si sono sforzate di essere le migliori. Ma questo ha prodotto anche la mentalità del dover lavorare, lavorare, lavorare.
Ritiene che l’immagine data di se stessi all’esterno sia stata fuorviante?
Quando è caduta l’Urss, c’era una coda lunghissima di persone in fila per mangiare da McDonald’s. Anche questo è stato ottenuto grazie al cinema. Quando parlo di arma culturale mi riferisco anche a questo. La gente che va al cinema vede qualcosa di molto ben fatto e mezzo sognante con valori che sono pura ipocrisia – perché il sogno americano mi sembra una delle cose più ipocrite che siano state dette politicamente nella storia dell’umanità. Una menzogna assoluta. Grazie a questa bugia, le persone hanno dovuto lavorare 24 o 36 ore senza dormire. Il popolo dell’ex Urss voleva così tanto mangiare in McDonald’s perché Hollywood lo aveva mostrato nei film.
Cos’altro rimprovera a Hollywood?
C’è un’altra cosa che fanno molto bene: si criticano. All’inizio di un film o di una serie si tirano addosso un secchio di merda, ma nel corso del racconto si redimono. Psicologicamente questo ha un effetto molto specifico sul pubblico. L’ultima cosa che si portano via è che gli eroi sono quelli che hanno iniziato come figli di puttana. Ma alla fine sono gli eroi. E, in genere, sono sempre gli americani. Molti non se ne rendono conto, ma viene fatto di proposito.
Hanno una grandissima mancanza di onestà, perché per molti anni hanno rifatto film da tutto il mondo, ma non dicono, per esempio, che sono remake di pellicole della Corea del Sud o della Spagna. Comprano i diritti, fanno il remake e poi il pubblico pensa che gli sceneggiatori di Hollywood siano straordinari. Ma ora abbiamo la realtà grazie a un film di supereroi dopo l’altro in cui continuano a inventare storie che diventano ogni volta più noiose. Perché in fondo non hanno più sostanza. Credo che il cinema indipendente latinoamericano ed europeo sia il luogo in cui si trovano le vere storie. In cui c’è più onestà.
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