I sogni sono oggetti della malinconia perché svaniscono e però sono presenti – ha detto il primo. Ho appena finito il mio film, è pieno di sogni: è diventato, cammin facendo, un film romantico e forse sì, un poco malinconico – ha detto il secondo. Vittorio Lingiardi, psicoanalista, e Luca Guadagnino, regista, una sera a Milano. Il sogno, è il motivo dell’incontro: dunque il teatro naturalmente, la poesia certamente, i padri, i figli, le assenze più acute presenze. Ogni assenza che genera un buco nel cuore, e il buco diventa un pozzo, dal pozzo arrivano i sogni e le immagini che replichiamo, nella vita, nel tentativo di tenerle fra le mani. Forse, anche questo. Quindi il cinema, sopra ogni cosa. Pioveva, l’altra sera, ai Bagni Misteriosi che sono la piscina e il giardino affianco al teatro Franco Parenti di via Pier Lombardo.
C’era, un momento prima, una luce in cielo che Luca Guadagnino indicava agli amici americani, attori dei suoi film, assistenti, dicendo: ecco, vedete, questa è la luce che sempre cerco, la luce di Milano. Un attimo dopo, la pioggia. Un breve tumulto di pubblico. Il pubblico, ai Bagni Misteriosi, sta seduto in una platea allestita su una zattera. La zattera galleggia ancorata ai bordi della piscina. Già questa, una visione.
La pioggia forte, appunto, qualche tentativo di ripararsi dall’acqua dappertutto ma non ci si ripara mai, dall’acqua. Anzi, è all’acqua, come alla luce, che sempre si torna. Pochi minuti: Giovanni Crippa, attore, ha letto qualche passaggio del Calderon di Franco Loi. E’ tornato il sereno. Sembrava di aver sognato o di essere stati nella scena di un film, che appunto è sovente lo stesso, e così si è potuto cominciare, malinconici e ridenti, a chiedere e chiedersi. Come mai è così lento, il processo di abbandono che porta al sonno (lento ma preciso, un processo cerebrale per tappe – spiegano le neuroscienze) e così repentino il risveglio e la dimenticanza.
Perché ci vuole così tanto a entrare e così poco a uscire dal luogo dei sogni che sempre, al risveglio, sbiadiscono come non volessero farsi ricordare. Non per me, ha detto Guadagnino ridendo: devo essere l’eccezione. Io mi addormento velocemente e ricordo sempre i sogni, o quasi sempre. “Sogno di fare un film che sia tutto un sogno”, ha mormorato a un certo punto. Il prossimo, forse.
Questo, l’ultimo, il lavoro appena finito di girare, si chiama Queer e come sapete è tratto da un libro di William Burroughs che era “un uomo asciutto, anche aspro ma il film invece mi pare romantico. Ho letto quel libro che avevo vent’anni, oggi ne ho cinquantadue. Sono trent’anni dunque che questo film cammina dentro il mio desiderio e il mio bisogno. Ha preso il suo tempo”.
Poi di padri, si è detto. Lingiardi ha ricordato come Freud sia stato spinto a scrivere “per elaborare i sogni sognati dopo la morte di suo padre” e tutti, in platea e sul palco, conoscevano in privato il tema. “Un amico mi ha detto che Bones and All gli è sembrato un film su mio padre”, ha detto Guadagnino, “un film sullo sradicamento di una perdita. Ero molto, molto legato a mio padre. E’ morto che aveva più di ottant’anni e io cinquanta, è stato un dolore profondo”.
Dolore, paura. Sogno e trauma, in tedesco, sono quasi la stessa parola e il tedesco è la lingua dei sogni – ha sorriso in platea Renata Colorni, traduttrice di Freud. I sogni sono oggetti della malinconia, perché svaniscono ma sono presenti. Sono reali. Anzi: sono forse la realtà più autentica e profonda di ciascuno di noi, ed è forse per questo che se ne vanno dalla coscienza veloci. C’era molto Bertolucci nell’aria. Si parlava di un film su di lui, un documentario forse, un’opera da realizzare: sui luoghi dell’assenza. La sua assenza, le case vuote, i buchi nel cuore che diventano pozzi. Il cinema, che restituisce i sogni alla veglia e ci consente di applaudirli, di tornare a casa con un poco di sollievo. Una sera, a Milano.
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