William Dafoe ha (sempre) qualcosa in più durante le interviste, non ti delude mai, ma approfondisce, è pragmatico.
Nella sua storia d’attore, dice, «convivono differenti piaceri e sfide diverse. Perché? Mi piace mixare, considerare altre strade, siano quelle che portano alla Marvel, siano quelle verso lavori indipendenti. Posso percorrere entrambe». Lo incontriamo nello splendido scenario del Mamounia Hotel, durante il Marrakech Film Festival, è tra gli ospiti d’onore, protagonista di una Masterclass, chiamato prima, nella cerimonia d’apertura, a premiare Mads Mikkelsen. A parlare per lui sono però gli oltre quarant’anni anni di carriera, divisi tra New York e Roma, le quattro nomination all’Oscar, e una galleria di personaggi emblematici, iconici, come quel Gesù così potente ne L’ultima tentazione di Cristo diretto da Martin Scorsese. Una carriera fatta di eroi davvero speciali, come il Sergente Elias nel Vietnam costruito da Oliver Stone in Platoon, o nel Mississippi razzista negli anni ‘60, di “adorabili” villain (vedi il Goblin di Spider-Man) di reduci indomiti (in Nato il 4 luglio), o di vampiri, spie, artisti e scrittori, da Van Gogh a Pasolini.
Dafoe è diventato, così, nel tempo un interprete essenziale per molti autori, da Paul Schrader ad Abel Ferrara, da Wes Anderson fino a Yorgos Lanthimos, col quale ora ha “debuttato” nei panni del geniale Godwin Baxter in Povere creature!, Leone d’Oro all’80esima Mostra del cinemato di Venezia, e con cui (insieme ad Emma Stone) è tornato subito a lavorare nel prossimo And. «Recitare significa fare soprattutto delle cose, essere flessibili, muoversi, adattarsi a ogni circostanza. Ecco, se questo succede realmente, le emozioni arrivano».
In Povere creature! lei è lo scienziato che ridà letteralmente vita alla protagonista, per questo ruolo si parla di una nuova nomination. Cosa ha capito dello stato d’animo di Baxter? Perché vederla è davvero una festa visiva.
Intorno a me c’era tanto materiale, lo vedevo completarsi nei dettagli. Io sono un attore a cui piace stare sul set, non vado in una roulotte, mi piace guardare gli altri lavorare, invece che uscire, che sarebbe più rilassante. È così che riesco ad entrare un po’ meglio nella storia. Qui c’erano tante cose con cui giocare e che mi dicevano come essere, anche se alla fine non le ho inventate io, arrivavano da Yorgos: se vivo con i personaggi, diventano allora miei, aiutano ad articolare il mondo da costruire. Qui portavo una bellissima maschera, stavo seduto su una sedia per ore per poi trasformarmi, ma ogni volta che ciò accade, è sempre di grande aiuto, perché non assomigli a te stesso, non ti senti neanche te stesso, perché appunto devi essere qualcun altro. E tu alla fine, se vedi queste opportunità, ci salti sopra.
Recentemente collabora molto con alcuni registi in particolare, da Lanthimos, a Robert Eggers, come nel prossimo Nosferatu (dopo The Lighthouse e The Northman). Cosa significa, è una sorta di viaggio artistico personaleche vuole esplorare, o c’è qualcosa di loro che desidera sapere di più?
Quando lavori con qualcuno, le ragioni sono due: o hai la sensazione che lui ti capisca, o che tu lo capisca, o ti piace quello che fa e vuoi far parte del suo lavoro. Quindi è un piacere, non solo per il fatto di trovare una certa fiducia, ma anche perché c’è un tipo di linguaggio da esplorare, è una sorta di chiamata e risposta, che alla fine si rivela fruttuosa. Dopo la prima volta, è un po’ più facile ritornarci. Mi piace far parte del vocabolario di qualcuno, di registi come Lanthimos o Eggers, che investono su di te, ti danno diverse cose da fare, non ti sfruttano come attore solo perché gli sei utile e magari trasversale per il personaggio. Personalmente ho sempre pensato di essere un colore in una tavolozza, là devo presentarmi per ciò che posso dare, altrimenti sarò di un colore diverso, e non funzionerò. Dunque, sì, è un modo per entrare nella loro iconografia, lingua e, appunto, vocabolario di immagini e parole.
A Venezia, seppur non fosse presente (a causa dello sciopero degli attori di Hollywood), l’abbiamo vista in altri due film. Il primo è Pet Shop Days di Olmo Schnabel. Dopo il padre (Julian Schnabel), com’è farsi dirigere col figlio?
Olmo era stato già fondamentalmente come assistente di produzione nel film Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità. L’ho visto crescere e poi mettersi all’opera, aveva un ottimo approccio al set, è stato un modo per conoscerlo personalmente. E poi quando ha iniziato a lavorare a questo progetto, gli sarebbe piaciuto coinvolgermi. E lì io ho detto, sì, ci sono. Vedo in lui grandi potenziali, in come sa affrontare le situazioni, in come riesce a rappresentare una generazione diversa dalla mia, e di come la racconta. Trovo sia sempre bello lavorare con registi giovani.
Cosa hanno in più?
A volte sono meno “corrotti” dal successo, o da quello che potrebbe diventare un successo, non si portano un certo tipo di stanchezza addosso, come invece vedo in registi con maggior esperienza. Potrebbero non essere così abili, ma hanno questa energia e speranza, ed è l’aspetto che mi colpisce, mi emoziona contornarmi di autori del genere.
Alla Mostra di Venezia era anche in Finalmente l’alba di Saverio Costanzo.
Una sfida e un ruolo molto interessanti, io interpreto un personaggio americano. Sul set si respirava poi una bellissima atmosfera.
Tra i cattivi che ha portato in scena c’è anche il John Geiger di Speed 2 – Senza limiti. Che ricordo ha di quell’esperienza?
Speed 2 è un film su cui la gente spesso mi prende in giro, ne ho le prove (scherza, ndr). In realtà, in alcuni paesi dove vado continuano ad apprezzarlo, in altri no, e spesso lì mi danno del filo da torcere al riguardo. Perché il primo Speed era molto più organico e funzionava bene, mentre il secondo capitolo, almeno negli Stati Uniti, non ebbe grandi reazioni, forse la chimica era sbagliata. Ma in ogni caso, ovunque sarò, sia l’India o qui in Marocco, trovo sempre qualcuno che lo adora e non lo giudica. Io, comunque, alla fine sono felice quando alla gente piacciono i miei film. Se riescono, è bello prendersi dei complimenti, se vanno male, cerco di sopravvivere lo stesso (ride, ndr).
Signor Dafoe, una curiosità finale: lei pratica ogni giorno Ashtanga Yoga. Quanto la aiuta?
È tutta una questione di respiro e di concentrazione, mi alleno praticamente tutti i giorni, è come fare il mio lavoro. Ha un effetto profondo, e questo alla fine mi rende anche internamente forte. Mi rende flessibile. E libero.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma