Treat Williams era un pilota di aerei professionista, come John Travolta e Sydney Pollack. Aveva preso il brevetto per pilotare i jet nel 2003, ma già prima, da giovane, aveva lavorato nell’aviazione civile. Che un uomo con un simile curriculum muoia in un incidente automobilistico, sembra uno scherzo macabro (è stato investito da un’auto mentre era a bordo della sua moto in una strada di Dorset, nel Vermont). Aveva 71 anni: era nato l’1 dicembre del 1951. Si chiamava all’anagrafe Richard, ma “Treat” (che in inglese vuol dire anche “sorpresa”, “delizia”, “piatto di portata”; e che per gli americani evoca immediatamente Halloween: “trick or treat?”) non era un nome d’arte, ma un soprannome di famiglia. Un antenato di sua madre, Robert Treat Paine, fu tra i firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti: in America, un quarto di nobiltà. Sempre tra i suoi antenati materni c’è il grande impresario circense Phineas Taylor Barnum: chissà se l’amore per la recitazione veniva da lì?
Dentro Treat Williams, fuori Madonna
Dopo varie apparizioni in teatro, Williams si impose all’attenzione del mondo con Hair, ispirato al celeberrimo show teatrale. Milos Forman girò il film nel 1979, assemblando un cast di giovani quasi tutti sconosciuti: l’unico già noto era John Savage, che l’anno prima aveva interpretato Il cacciatore di Cimino.
È famoso un aneddoto raccontato da Forman nella sua autobiografia Turnaround, uscita per Villard Books nel 1994: sul primo foglio del primo giorno di provini, dove i giovani attori dovevano iscriversi (come a un esame universitario), il primo nome in alto era Veronica Louise Ciccone, vent’anni, futura Madonna. Per segnarsi al primo posto doveva essere arrivata lì alle cinque del mattino: “Non ci fece una particolare impressione e non la prendemmo”, chiosa Forman. Williams invece fece una grande impressione, nel film: di fatto era il protagonista, lo spavaldo hippy Berger che accoglie nel gruppo il provinciale Claude (Savage) e alla fine va in Vietnam al suo posto.
Per interpretare quel ruolo Williams prese lezioni di canto e di ballo, ma ricordava l’esperienza come entusiasmante: “Che c’è di meglio che infilarsi un paio di jeans e un gilet, uscire di casa e andare a piedi a Central Park per girare?”. Per il ceco Forman, reduce dagli Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo, Hair era un’altra grande metafora dell’eterna lotta fra il potere oppressivo e la libertà individuale: un tema che il regista, esule dalla Cecoslovacchia degli anni ’60, conosceva assai bene.
Se Leone non fa curriculum…
In tanti pensammo che Williams, con quel talento e quel fisicaccio, fosse destinato a diventare un divo, ma non successe. E forse nemmeno gli interessava, visto che negli anni è vissuto tra lo Utah (Park City, dove si tiene il Sundance Festival) e il Vermont, snobbando Hollywood. Il ruolo più bello gliel’ha cucito addosso un immenso direttore di attori come Sidney Lumet, in Il principe della città (1981).
Tre anni dopo arrivò un ruolo secondario ma bello in C’era una volta in America di Sergio Leone, un film che – sarà bene dirlo una volta per tutte – a Hollywood non “fa curriculum” vista la pessima distribuzione negli Usa, e il conseguente, colossale fiasco. Fece altri film in Italia, non indimenticabili: Russicum di Pasquale Squitieri (1988), La notte degli squali di Tonino Ricci (1988), anni dopo Il nascondiglio di Pupi Avati (2007).
Da Boyle a Woody
In patria, tanti film, tanta tv e tanto teatro. Ebbe un bel ritorno nel 1995 grazie al curioso Cosa fare a Denver quando sei morto di Gary Fleder (1995). In filmografia vanta anche film di Alan J. Pakula (L’ombra del diavolo, 1997), Woody Allen (Hollywood Ending, 2002), Danny Boyle (127 ore, 2010). Ma insomma la sua carriera non ebbe mai più la grande chance, la vera impennata. Resta il ricordo di un attore bello e bravo, che se n’è andato presto e in modo tragicamente ingiusto.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma