Nel 1995 la Francia veniva messa a ferro e fuoco e veniva raccontata quasi in tempo reale da Mathieu Kassovitz e Vincent Cassel ne L’odio. Due piccolo-borghesi delle periferie che stavano vivendo quella rivoluzione. Quasi trent’anni dopo quel film continua a sembrare in maniera sconcertante ancora molto attuale visti gli scontri in corso in tutta la Francia tra manifestanti e forze dell’ordine dopo la morte di Nahel M., il 17enne ucciso martedì 27 giugno a Nanterre da un poliziotto durante un controllo di routine che il ragazzo avrebbe cercato di evitare.
Il testo che segue, a firma di Boris Sollazzo, è contenuto nel booklet del dvd de L’odio distribuito nel 2011 da Rarovideo.
Fin qui tutto bene?
“Jusqu’ici tout va bien. Jusqu’ici tout va bien. Jusqu’ici tout va bien”. Fin qui tutto bene. È la storiella che sentiamo, fuori campo, all’inizio de L’odio. Un divertissement, un’indicazione anche furba di quello che vedremo, una metafora fulminante. Una di quelle piccole grandi idee che solo un autore perfettamente consapevole del proprio film, della storia che sta per raccontare, può avere.
Ed è anche, diciamolo, la sfrontata entrata in scena di un regista poco più che ventenne che ci dichiara tutta l’incosciente vitalità che scaraventerà sul grande schermo. Senza se e senza ma. Tutto questo per dire che l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio.
Segnale che Mathieu Kassovitz è sicuro di cadere in piedi. Anche in un film rischioso, unico, selvaggio e spiazzante come L’odio. Ha la forza di una gioventù che lo porterà, 28enne, a vincere a Cannes come miglior regista. Ha con sé quel Vincent Cassel cresciuto artisticamente con lui, e sa così bene di avere tra le mani il futuro De Niro europeo – troppo europeo per essere Bob, troppo americano per essere Volontè -, che lo mette pure davanti a uno specchio a recitare il monologo-icona di Taxi Driver. E lo fa parlare con una pistola come “quel bravo ragazzo”. Ha Parigi, la Francia e la sua situazione esplosiva, le banlieues che allora nessuno ancora conosce fuori dai confini transalpini, ma che tutti comunque evitano. Ha, infine, dalla sua un talento visivo non comune.
L’odio è completamente diverso da qualsiasi altro film europeo, è un noir ed è un’opera impegnata, è girata come un action movie ed è scritta come un monologo da “rabbia giovane”, come un comizio “massiccio e incazzato”. Una sorta di gangster movie di periferia, in cui le vittime divengono carnefici per necessità di sopravvivenza. Morale e fisica. Vinz, un Cassel forse mai più così bravo, cattivo, carismatico – se non, molti anni dopo, interpretando in Nemico pubblico Mesrine -, vuole rispetto. Non si sente solo un numero, un puntino in quei quartieri dimenticati dal potere, sa o semplicemente pensa di poter fare qualcosa di più e di meglio.
E il rispetto che vuole passa per una pistola. Una Smith & Wesson 44 cromata, una “pistola cechoviana”, la definisce Mario Sesti, spesso inquadrata, deformata dalle inquadrature, accarezzata dalla macchina da presa e impugnata con eccitazione, anche sessuale, dal protagonista. Un’arma di uno sbirro. Da usare se Abdel morirà. La vittima sacrificale, il pretesto perché esploda una guerra in cui non importa l’atterraggio, ma la caduta. Possibilmente eroica, scenografica, indimenticabile.
Vinz è un teppista che non ha nulla di spontaneo: ebreo con un amico musulmano e uno nero, è un personaggio e come tale si disegna, è l’alter ego di Kassovitz che ne L’odio mostra come lo spontaneismo non è dei grandi del cinema. Il suo è un neoiperrealismo moderno che ama le tinte forti, che non cerca la verità del linguaggio – persino quel “verlan” è studiato accuratamente perché sia un marchio del film – o di quello che racconta. Kassovitz respira l’atmosfera, il vento che tira e lo porta all’interno del lungometraggio. Lo fa così bene che a un certo punto, rivedendolo oggi, ti aspetteresti che da un momento all’altro possa arrivare Nicolas Sarkozy e definirli “feccia”.
Questo nonostante i sedici anni di distanza e del bianco e nero, “colorato” da una fotografia così vivida che il film potrebbe quasi sembrare un 3D senza occhialetti. Quel “seppia”, quel bianco e nero, infatti, sembra far uscire fuori con violenza oggetti, strade, case, persone.
Tutto questo per dire che la prima e forse sola avvertenza a chi legge e poi vedrà questi 100 minuti scarsi, al di là degli sguardi in camera, della colonna sonora che riscrive e sovrascrive il film, della bravura degli attori e del cineasta che qui dirige, scrive, monta e a un certo punto recita pure, è proprio questa: L’odio, a differenza di tanti cult moderni, non ha perso la propria forza. Dopo la New Hollywood, dagli anni Ottanta in poi, infatti, quasi tutti i film che hanno fatto la storia di un’epoca e di una generazione non hanno retto alla prova del tempo: inevitabilmente appaiono datati, superati, persino ingenui.
Un esempio? Provate oggi a rivedere Tutto su mia madre o Trainspotting, lavoro in cui Danny Boyle provò a ripetere il fenomeno francese di pochi anni prima, incentrandolo sulla gioventù bruciata britannica e l’oceano di stupefacenti in cui nuotava. La pellicola di Kassovitz, che allora a molti sembrò eccessiva e irritante ora sembra quasi un reportage di un giornalista che, forse, si è fatto prendere un po’ la mano.
L’odio, un film senza eredi
Prima di ricominciare a sviscerare il film, però, è utile riflettere sommariamente sul momento storico in cui L’odio fece la sua comparsa. Inquadrarlo non solo nel contesto cinematografico, ma in quello socio-politico. Anzi, forse è determinante soprattutto quest’ultimo. Perché come oggetto cinematografico L’odio è rimasto un unicum: la settima arte ne fu colpita e affondata. Non a caso ne fu prima disorientata e sconvolta – e grazie a una giuria illuminata Cannes se ne accorse, forse anche perché veniva un anno dopo la Palma a Pulp Fiction -, poi tentò di ignorarlo – agli EFA un solo premio, ai Cesar 3 su 11 nomination, all’Oscar nulla – e infine lo relegò a “fenomeno”.
Kassovitz non creò una scuola in patria, dove presto fu trattato (male) come Luc Besson, e neanche fuori dai confini, dove fu amato dal pubblico ma relativamente poco dagli addetti ai lavori. E di cui non si compresero mai totalmente le potenzialità. E lui stesso, forse, ebbe paura della sua creatura: un oggetto troppo grande, un successo troppo popolare (nell’accezione più larga di questa parola) per poter rimanere sulle sue spalle. Non a caso cercò altre strade: come attore finì addirittura ne Il favoloso mondo di Amelie, quasi a voler esorcizzare il suo passato (per)correndo con delicatezza l’alta Parigi, come regista si diede all’action futuribile sviluppando soprattutto, se non unicamente, le sue abilità visive e tecniche.
L’odio cerca ancora i suoi eredi, o almeno qualche emulo, senza trovarne. Anche perché quando potrebbero esserci- uno potrebbe essere Et in terra pax della coppia Botrugno-Coluccini o Athena di Costas Gavras – non riescono ad attecchire nell’immaginario collettivo: è cambiato il mondo, il mercato e pure il tipo, anzi lo stereotipo del giovane cinefilo.
Il contesto storico in cui nasce L’odio
Sotto l’aspetto storico, invece, è utile pensare che Kassovitz gira il suo capolavoro nel momento di massimo ottimismo del dopoguerra. Una felicità collettiva artificiale, dovuta alla superficialità diffusa e a una terza via politica che, da Blair a Clinton, creò un’asse allora apparentemente indistruttibile. Il secolo breve sembrava il secolo della fine di tutte le guerre, la caduta del Muro di Berlino sembrava l’inizio della fine del conflitto mondiale che aveva terrorizzato per decenni il mondo: la guerra fredda. Pochi intellettuali capirono invece la portata del disastro nascente.
La guerra fredda, infatti, aveva congelato ogni conflitto, compresa se stessa: Usa e Urss, superpotenze invasive e invadenti, in cambio di periodici bracci di ferro a migliaia di chilometri di distanza da benestanti e benpensanti (su tutti Corea, Vietnam, Afghanistan e con altri metodi, più subdoli, Africa e Sud America), diedero al mondo amici e nemici da sostenere, una cartina geopolitica delle influenze dirette e indirette, chiare chiavi interpretative per eletti ed elettori (o dittatori e sudditi) di ogni paese.
Nel 1994, però, l’economia grazie a bolle continue stava costruendo un breve ma ben pubblicizzato benessere, la politica del laburismo di destra di leader di sinistra offriva la nuova ricetta del successo individuale e collettivo e nessuno pensava più di avere un nemico. I Saddam e i Milosevic venivano considerati reperti archeologici del passato. I conflitti etici ed etnici, gli Osama Bin Laden erano solo file sottovalutati nelle agenzie di sicurezza più (in)efficienti del mondo occidentale. Eppure che la polveriera del Medio Oriente, e non solo quella, stesse per esplodere ovunque, non era così difficile da prevedere. Che la miccia di un precariato che allora si chiamava flessibilità stesse già bruciando, nemmeno.
Fin qui tutto bene, deve aver pensato ogni primo ministro europeo, allora, persino in quella Francia la cui destra ha capito prima di altri cosa stava accadendo, e di ciò ha fatto strumento politico: Chirac, Le Pen, Sarkozy sono tre facce della gestione della paura del diverso, dell’egoismo di stato, del nazionalismo identitario che avrebbero presto invaso l’Occidente. Facce lontane persino da quell’Alain Juppè, tutt’altro che un rivoluzionario e allora premier transalpino, che organizzò una proiezione speciale per il suo dipartimento. Gli agenti di polizia presenti voltarono le spalle allo schermo. Quindici anni dopo “le petit Nicolas” Sarkozy fece esattamente il contrario: l’odio, la rabbia e l’orgoglio andò ad alimentarli addirittura nelle singole gendarmerie.
Fin qui tutto bene, amavano ripetersi i governi spazzando via i problemi sotto il tappeto, ammassando nelle periferie la spazzatura. In tutti i sensi. Fin qui tutto bene si ripetevano anche quando vedevano le macchine bruciare, usavano la repressione di stato contro la rabbiosa depressione sociale. Eppure sarebbe bastato conoscere davvero Parigi e Londra, annusare l’aria a Roma e Milano, essere cittadini del mondo e non opportunisti occupanti di un pianeta troppo ricco e pacificato per essere vero.
Ecco, semplicemente L’odio e Kassovitz arrivarono in un momento come questo, demolirono le facili certezze, spensero le luci di quel futuro luminoso che tutti credevano di avere a portata di mano. Ci dissero che dormivamo su una bomba. Non facile da mandar giù per una società che stava precipitando dal grattacielo costruito sulle proprie illusioni neocapitalistiche: qualcuno gli stava dicendo che fin qui non andava tutto bene.
Mathieu Kassovitz, bianco e noir
Mathieu Kassovitz è bianco e nero, come il suo film più bello. Sa interpretare la gioia e la rabbia, l’amore e l’odio. Dirige film urbani e attuali con la stessa facilità con cui sfiora il trash, accarezza la fantascienza, corteggia l’action. Sa essere commerciale come il director hollywoodiano più scafato e giocarsi la carriera su un film in bianco e nero su cui pochi avrebbero scommesso: lui è così, o la fa grossa o non è contento. Voleva una storia messa in scena come un testo teatrale, solo due colori per non deconcentrare lo spettatore, ma tante parole e tante immagini.
Persino una lingua nuova, il verlan, l’idioma che nasce dal surrealismo francese degli anni Venti e adottato con un corto circuito affascinante dalle periferie inverte le sillabe della parola, come in una dislessia semantica e voluta con cui riscrivere la realtà: e infatti verlan, secondo questa semplice regola, viene da l’anver, la pronuncia dell’envers (l’incontrario, appunto). Fa un film di finzione, in cui tutti sono consapevole della stessa, ma ci sembra di guardare un documentario, tanto che nel 2008 il canale parlamentare televisivo francese lo trasmette come tale.
È l’artefice dell’ultimo grande evento cinematografico del cinema moderno, James Cameron escluso. Nessuno più, con un film indipendente, è riuscito a scuotere coscienze, botteghino, critica come ha fatto Kassovitz con L’odio. Tutti ricordano, tutti ricordiamo la prima volta che abbiamo visto L’odio. Pur essendo profondamente apolitico, quel film accese qualcosa: l’esigenza di capire cosa stava succedendo oltre le mura più o meno rassicuranti delle nostre scuole, case, uffici, fabbriche.
C’era una periferia europea viva e percorsa da ingiustizia e rabbia, ce n’era anche una italiana simile, ma ce ne saremmo accorti tardissimo. Quelle banlieues, quella citè costruita proprio per lasciar fuori e lontano un pezzo di società indesiderata, aveva cresciuto una nuova classe operaia, quella che può andare solo all’inferno. Parigi, in questo senso, era un laboratorio: la sua immigrazione, di natura postcoloniale e non solo derivante dallo squilibrio economico mondiale, ha costruito questo sottoproletariato urbano meticcio e ghettizzato che non conosceva rassegnazione. Lotta rabbiosamente.
Un giovanissimo regista se ne accorse già oltre vent’anni fa, era uno che con il suo bel Metisse aveva già catturato l’attenzione di molti, ma in forma di commedia di cui, peraltro, era uno degli ottimi protagonisti.
Era il regista giusto, al momento giusto e nel posto giusto. E, soprattutto, per sua fortuna, fece le scelte giuste, dal bianco e nero ai protagonisti: non solo Vincent Cassel, ma anche Saïd Taghmaoui e Hubert Koundè. Mathieu è uno che tra i comprimari piazzò anche, tanto per gradire, assi come Benoît Magimel e Vincent Lindon (e anche il suo produttore storico, il grande Christophe Rossignon, come tassista) e persino se stessa.
E che parlò con la voce cantata di Bob Marley e del rap transalpino per comporre una delle migliori colonne sonore degli ultimi trent’anni, grazie a pezzi di repertorio e originali (scritti per il film) – il rap è rappresentato anche da dj e cantanti che recitano nel film -, al lavoro di Pierre Aïm e a quello di Vincent Tulli, ai suoni.
Proviamo a mettere ordine nella fertile mente di questo cineasta costruendo un percorso con le sue parole. “L’odio nasce con la morte di Makomè, vittima di un pestaggio in un commissariato parigino. Da allora mi sono chiesto come si sarebbe potuti entrare nel circolo vizioso dell’odio: i ragazzi che insultano gli sbirri che insultano i ragazzi che insultano gli sbirri. Tutto finisce sempre male, si trasforma in scontro. Il fatto è che è la polizia ad avere le armi addosso ed è solo la polizia a poter decidere quanto alzare l’asticella del conflitto”. Non cerca Kassovitz un’ottica pasoliniana per analizzare e vivere lo scontro, il suo, lo ammette candidamente, “è un film contro i poliziotti e volevo che fosse inteso come tale.
Ecco perché c’è il bianco e nero, perché avevo bisogno di sottolineare il carattere “speciale” del film, dire allo spettatore: qui c’è qualcosa di diverso, in più o in meno, ma c’è”. Non nega, però, “la presenza, come già avvenuto in Metisse, di elementi più divertenti, leggeri, che diano un po’ d’aria a chi guarda, mentre la rabbia, l’odio prendono alla testa i protagonisti. Rimane comunque un film che si chiede come può un ragazzo svegliarsi tranquillo e venire ucciso la sera stessa da un poliziotto.
Ciò non toglie che ci sono, nella storia, poliziotti buoni e ragazzi coglioni. Il bianco e nero serve a tutti per non distrarsi dalla drammaticità della vicenda. Il mondo, per alcuni di noi, non diventa mai a colori.
Testo estratto dal booklet del dvd distribuito da Rarovideo.
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