L’occasione è a dir poco unica. Non ci saranno bis, non sarebbe possibile “Già riunire tutti a Roma è stata un’impresa. Figuriamoci farlo anche in altre città”. Marco Tullio Giordana nasconde un po’ l’emozione, ma neanche troppo. Domenica alle 17 il Cinema Troisi festeggia i vent’anni de La meglio gioventù presentandolo nella versione integrale di 6 ore alla presenza del cast e della troupe. Oltre al regista ci saranno Luigi Lo Cascio, Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, Jasmine Trinca, Alessio Boni, Maya Sansa, Valentina Carnelutti e Lidia Vitale, tutti insieme appassionatamente con gli sceneggiatori Sandro Petraglia e Stefano Rulli, il produttore Angelo Barbagallo, il direttore della fotografia Roberto Forza, il montatore Roberto Missiroli, il truccatore Enrico Iacoponi.
Vent’anni fa cambiarono per sempre la percezione della nostra storia recente con un film nato per la Rai che la tv di Stato aveva prudentemente “congelato”. Oggi si ritroveranno per la prima volta al gran completo nel cinema romano che ha appena vinto per la seconda volta il Biglietto d’oro, il premio destinato alla monosala che ha registrato il maggior numero di spettatori nella stagione. La sede ideale per un film che uscì dal limbo solo perché invitato a Cannes al Certain regard, dove si impose con la forza del grande romanzo popolare per poi uscire al cinema anche in Italia, diviso in due puntate, restando nelle sale un’estate intera.
E pensare che sulle prime Giordana era addirittura perplesso.
“Avevo appena fatto I cento passi e la mia opinione sulle serie tv, visto quel che passava il convento, non era così alta”, ricorda il regista. “Mi spaventava l’idea del polpettone melodrammatico con personaggi stereotipati, insomma ero molto riluttante. Il profilo del produttore, Angelo Barbagallo, e soprattutto il testo, però, mi convinsero subito.
La sceneggiatura era veramente magnifica. Con Rulli e Petraglia avevo fatto Pasolini – Un delitto italiano e mi ero trovato benissimo, sono due grandi professionisti, venivano da La Piovra… Poi c’era questa idea in più che oggi sembra scontata ma non lo era affatto. In genere per raccontare quegli anni si comincia sempre dal ’68, come fosse quella la data spartiacque. Qui invece si partiva dal ’66, l’elemento cruciale era l’alluvione di Firenze e questa idea mi conquistò.
Intanto c’erano molti elementi in comune col ’68, una gioventù generosa, euforica, che si mobilita per fare qualcosa di importante, in quel caso salvare una città disastrata. Io stesso andai a Firenze, a 16 anni appena compiuti, con un gruppo di altri boy scout, e ricordo tutto molto bene. Restai a spalare solo tre giorni perché la mobilitazione generale delle parrocchie, degli oratori, insomma di tutto l’associazionismo, rischiava anche di creare problemi logistici. Dovevano darci da mangiare, da dormire, si gelava, infatti c’era un ricambio continuo, ma la cosa più bella è che c’erano ragazzi venuti non solo da tutta Italia ma dal mondo, inglesi, francesi, spagnoli…”.
Questa dimensione è presente anche nel film.
“E’ appena accennata ma è decisiva. Questa città d’arte ferita a morte con tutti i suoi tesori d’arte, le cinquecentine che galleggiavano nell’acqua, le pale del Cimabue… Per quei ragazzi venuti dai luoghi più diversi tutto questo andava salvato. Non era più Firenze, era il mondo. Cominciando da questo episodio e non dalla rivolta politica, La meglio gioventù mi sembrava cogliere l’entusiasmo giovanile, la generosità, lo slancio senza secondi fini che non deve essere poi malamente riassunto dalla politica”.
In un certo senso il film cominciava dalla fine, da quello che dovrebbe essere l’esito finale. Un mondo fatto di collaborazione e solidarietà.
“Esatto, mentre il ’68 vero e proprio. nato un po’ nello stesso modo, ha poi avuto esiti disastrosi perché è stato incolonnato nell’agone politico. Ecco, leggendo la sceneggiatura di Rulli e Petraglia si capiva subito il loro punto di vista: parlavano di cose a loro vicine, delle vite di uomini non illustri, senza la falsa coscienza di chi vuol fare il ritratto storico-politico dell’Italia. I protagonisti erano ragazzi comuni che stanno cercando la loro vocazione e sono anche anche molto disorientati, proprio come mi sentivo io a 16 anni”.
C’era un problema: che volti dare a questi personaggi antieroici?
“Fu il secondo fattore decisivo. La promessa, mantenuta, di difendere le mie scelte in materia di cast. Non volevo nomi convenzionali. Volevo facce nuove, non necessariamente inedite, nessuno di loro era alle prime armi, ma cercavo un sentimento, una radice comune. Scoprii presto che Lo Cascio, Gifuni e Alessio Boni avevano addirittura fatto l’Accademia d’Arte Drammatica insieme. “Fare famiglia” gli sarebbe riuscito facile. E poi forse alla Rai non tenevano più che tanto al progetto.
Lo vedevano come un prodotto di nicchia, da relegare in qualche angolo del palinsesto. Ma si era in piena rivoluzione berlusconiana, tutti erano troppo impegnati a salvare le poltrone piuttosto che star dietro a noi, così alla fine il progetto passò da Rai2 a Rai1 e ci diedero 24 settimane di riprese, 6 a puntata, che erano tante anche allora”.
Modifiche al copione?
“Piccole cose, dettagli, Il personaggio interpretato da Sonia Bergamasco in origine era una cantautrice. Ma quando scoprii che era diplomata in pianoforte al Conservatorio non esitai un istante a cambiar tutto. Rinunciare al piano per diventare terrorista, dopo anni passati a ammazzarsi su Rachmaninoff, era un sacrificio immensamente più grande che rinunciare al chitarrino… Significava davvero tradire se stessi, spezzare un destino, rendeva tutto molto più interessante e più tragico se vogliamo. Frequento molti più musicisti che gente di cinema e so bene che la loro vocazione è quasi una malattia, una maledizione che a volte li fa soffrire come cani anche se in Italia spesso sono considerati semplici intrattenitori”.
Nessun cambiamento più sostanziale? Si dice che in una versione della sceneggiatura comparisse il caso Moro.
“Moro no, c’era la strage di piazza Fontana, ma mi sembrava un po’ assurdo che questa famiglia incrociasse tutte le disgrazie e i misteri della storia d’Italia, quasi fossero loro a portare sfiga! Uscendo da una proiezione, tanti anni fa, l’amico Silvano Agosti me lo rimproverò pure (imita sorridendo la sua voce): “Ma come! Avresti dovuto ricordare piazza Fontana…” Su quella strage più tardi avrei fatto un intero film. E poi l’essenziale era affezionarsi ai personaggi, anche se scritti contro tutte le regole, come quello di Alessio Boni che si suicida ed esce di scena quando meno te l’aspetti.
Quanto al caso Moro, ho tentato per anni di fare un film su quella vicenda partendo dalla convinzione che la verità al riguardo sia ancora tutta da scoprire. Ma più studiavo il caso – la libreria alle tue spalle è tutta su questo argomento – meno trovavo un’idea di racconto capace di sintetizzare il tutto, come quella che mi aveva guidato per Pasolini. Bellocchio l’ha trovata con Esterno notte.
Mi sono messo l’anima in pace. Bellocchio mi ha liberato non dovrò più fare quel film! Ma la verità prima o poi salterà fuori. Le Br non volevano uccidere Moro. Volevano processarlo e poi liberarlo come avevano fatto con il giudice Sossi, il rapimento che segnò il punto più alto della loro parabola politica.
C’era un progetto preciso dietro: accreditarsi come il movimento leader di quell’area, essere riconosciuti come il Batasuna nei paesi baschi o il Sinn Fein in Irlanda. Da soli però non ce l’avrebbero mai fatta a gestire un’operazione di quella complessità. Per farcela si allearono con qualcuno, le ipotesi possono essere molte, che prima li illuse di poter rapire addirittura Andreotti, poi ripiegò su Moro, infine li spinse a eliminare l’ostaggio. Di tutto questo naturalmente non ci sono le prove. Ma il caso Moro resta una delle tante zone d’ombra della nostra storia, non certo l’unica, dagli anni 60 in poi”.
Pur senza citarlo esplicitamente, in fondo La meglio gioventù racconta anche questo: il passaggio da un’epoca in cui si poteva ancora sognare l’utopia a un’epoca successiva, dominata dalla disillusione più feroce.
“Sì, ho sempre pensato che La meglio gioventù fosse ispirata e percorsa dall’ultima utopia collettiva della Storia. Ma non posso nemmeno immaginare che questa tensione sparisca. Forse si è inabissata come un fiume carsico e riapparirà chissà dove e chissà quando. In fondo tutti i personaggi il poliziotto, la terrorista, lo psichiatra, l’economista, perfino la fotografa che vuol fare della fotografia un’arma rivoluzionaria, sono tutte persone illuminate da qualcosa in cui credono, figure in qualche modo religiose anche se di una religiosità laica, orizzontale, che spinge ai rapporti verso gli altri anziché a quello verticale col Padreterno.
Del resto basta pensare alla fantascienza. Tutta la letteratura fantascientifica, praticamente senza eccezione, nel descrivere i mondi a venire, immagina società dominate dalle macchine o da una qualche forma di tecnologia. Nessuno racconta mai un futuro segnato dalla felicità della democrazia realizzata. Una ragione ci sarà”.
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