Questo che segue è il testo che Antonio Monda, critico nonché docente di cinema alla New York University, firma di punta di The Hollywood Reporter Roma, presenterà alla conferenza “Capolavori a confronto: Il Gattopardo e Il Padrino” che si terrà mercoledì 17 gennaio alle ore 21 a Bologna presso l’Illuminia Auditorium in via de’ Carracci 69/2 (fino ad esaurimento posti).
È difficile attribuire un’alta qualità letteraria a un libro come il Padrino di Mario Puzo, come è difficile negarla al Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ma i film tratti da entrambi i romanzi sono tra i migliori esempi di adattamento della storia del cinema. Il merito si deve certamente al magistero registico di Francis Ford Coppola e Luchino Visconti, ma non si può sottovalutare il fatto che le due opere hanno i requisiti essenziali per una riuscita trasposizione cinematografica: una costruzione drammaturgica solida e avvincente e dei personaggi indimenticabili.
Non c’è dubbio che i due film siano dei capolavori, ma entrambi hanno qualcosa che trascende l’elemento puramente artistico: un’aura leggendaria che li ha trasformati per molti spettatori in veri e propri punti di riferimento, e questo è a dir poco inquietante, specie per quanto riguarda Il Padrino, che racconta le vicende di una famiglia di criminali.
Prima di condividere qualche riflessione su questo elemento, è necessario fare una premessa: considero Il Padrino un unicum insieme alla parte seconda, ma non prendo in considerazione la terza, che mi ricorda uno di quei lontani parenti nei confronti dei quali proviamo un po’ di imbarazzo ma purtroppo portano il nostro stesso nome.
Da un punto di vista morale, un boss mafioso violento e temuto come don Vito Corleone (Marlon Brando) è agli antipodi rispetto a un raffinato aristocratico apprezzato per la sua integrità quale don Fabrizio Corbera principe di Salina (Burt Lancaster), tuttavia tra i due personaggi esistono numerose analogie, a cominciare dal fatto che sono due siciliani che si avviano al tramonto dell’esistenza e hanno il culto della famiglia e delle tradizioni.
“Un uomo che non sta con la famiglia non è un uomo!” dice don Vito a Johnny Fontane (Al Martino), il personaggio ricalcato su Frank Sinatra che va a chiedergli di imporlo in un film che potrebbe rilanciare la sua carriera, e, in una delle scene più famose della saga, Michael (Al Pacino) dice a Fredo (John Cazale): “tu sei il mio fratello maggiore e ti amo, ma non schierarti mai con qualcuno contro la famiglia. Mai.”
Parallelamente, nel Gattopardo, la famiglia Salina è raccontata attraverso la celebrazione di una serie di tradizioni, a cominciare dal Salve Regina recitato all’inizio della pellicola, la lettura di un romanzo di fronte al focolare, i giochi di carte, la villeggiatura, i balli e persino il cibo, come il timballo di anellini, servito nelle grandi occasioni.
Sia don Vito che don Fabrizio hanno una concezione disillusa dell’esperienza umana, ma ciò non distoglie il primo dal difendere la situazione di potere che ha costruito attraverso il crimine, mentre spinge il secondo a fuggire in hobby quali l’astronomia o debolezze carnali come la frequentazione di una prostituta che lo chiama “principone mio,” qualcosa che il boss mafioso non concepirebbe né tollererebbe.
Nei loro sguardi e nelle loro battute traspare una sottile ma ineludibile malinconia, come se entrambi fossero a conoscenza della fine di ogni storia e dell’inutilità di ogni lotta, tuttavia non rinunciano a difendere con orgoglio quanto hanno fatto: in una delle scene più intense del Padrino, inesistente nel romanzo e scritta appositamente per il film da Robert Towne, don Vito parla con il figlio Michael, che sta prendendo le redini del suo impero criminale.
È un momento di calore e intimità nel quale il boss rivela di essere addolorato che anche lui, eroe di guerra destinato a una vita “legit”, abbia preso la sua stessa strada. “Non l’ho mai voluto per te,” gli confida, a differenza di quanto è già avvenuto per il primo figlio Fredo (John Cazale), debole e inadeguato e Sonny (James Caan), irruento e violento. Sostiene tuttavia di non aver nulla da scusarsi, di essersi preso cura della sua famiglia e di non essere mai diventato “un buffone manovrato da qualche puparo”.
Anche il principe si è preso cura della propria famiglia, e per garantirne il futuro ha accettato il fidanzamento del nipote Tancredi Falconeri (Alain Delon) con Angelica (Claudia Cardinale) la figlia del rozzo e spregiudicato don Calogero Sedara (Paolo Stoppa). In questo passaggio di consegne c’è una interessante assonanza: sia Michael che Tancredi finiscono per prevalere sugli eredi diretti dei patriarchi, e per garantire la sopravvivenza della casata, il principe sacrifica anche l’amore di sua figlia Concetta (Lucilla Morlacchi) per il cugino.
Nella concezione del mondo di don Vito, non esistono altre strade che dominare o essere dominati, ed è probabile che anche don Fabrizio la pensi allo stesso modo, ma il principe appartiene alla crema dell’aristocrazia, e fino all’arrivo di Garibaldi non è mai stato sfiorato da questo tipo di problemi. I due personaggi affrontano scelte diverse: don Vito, e in seguito il figlio Michael, ha il fine ultimo di acquisire rispettabilità sociale, mentre don Fabrizio e il nipote Tancredi decidono di cambiare tutto per non cambiare nulla. Nel mettere in atto questa strategia, le strade dei due nobili si biforcano: don Fabrizio è motivato dalla difesa del proprio status sociale, mentre Tancredi dall’ambizione. Cinico e opportunista, il giovane saluta frettolosamente lo zio nell’ultima scena in cui li vediamo insieme: è troppo preso dalla sua carriera e il suo futuro, e l’espressione ferita del principe è uno dei momenti più struggenti del film.
In entrambe le opere le nuove generazioni appaiono spietate e senza scrupoli: quando prende il potere, Michael giunge a uccidere il cognato Carlo Rizzi (Gianni Russo) e poi perfino il fratello Fredo, mentre Tancredi passa dalla rivoluzione alla reazione, giungendo a esultare per la fucilazione dei compagni con i quali fino a pochi mesi prima aveva condiviso gli ideali. Se don Vito confida a Michael quanto sia amareggiato che lui non sia diventato governatore o senatore, lamentando di non aver avuto tempo sufficiente per consentire la trasformazione dei Corleone in una famiglia “legit”, don Fabrizio cerca di stare al passo con i tempi favorendo l’ingresso di Angelica Sedara nel proprio mondo, nonostante le proteste della moglie Maria Stella (Rina Morelli) e il dolore della figlia Concetta.
In società il padre di Angelica è a dir poco imbarazzante, ma è dotato di un’intelligenza più vitale di quella dei membri della famiglia Salina: è lui a ideare l’incontro tra la figlia e Tancredi, ed è interessante sottolineare che si tratta di un mafioso ante litteram: è quello che Ciccio Tumeo (Serge Reggiani) spiega al principe durante una battuta di caccia, raccontando la fine violenta che hanno fatto tutti coloro che hanno tentato di opporsi alle sue ambizioni di espansione.
Per tutelare lo status delle rispettive famiglie, don Vito e poi Michael scelgono la via criminale, come se si trattasse di un destino ineludibile, mentre don Fabrizio e Tancredi si lasciano sedurre dalla bellissima Angelica, nipote di un uomo talmente animalesco da essere soprannominato Peppe Merda. Tomasi di Lampedusa scrive che la giovane arriva a Donnafugata con “l’invincibilità della sicura bellezza”, e Visconti, avvalendosi dell’avvenenza di Claudia Cardinale, immortala in un momento di grande cinema le reazioni di tutti i personaggi: è l’ingresso della gens nova, che cambierà geneticamente la stirpe di casa Salina ma riuscirà a farla sopravvivere proprio in virtù di questa mutazione.
Anche l’arrivo di Carlo Rizzi all’interno della famiglia di don Vito ne cambia la dinamica interna, rischiando però di distruggerla. Tuttavia, a differenza dei Salina, appartenenti alla categoria di siciliani che “non vogliono essere svegliati”, i Corleone hanno un’intelligenza attiva, e sin dal giorno del matrimonio vedono il nuovo arrivato con diffidenza, mortificandone le ambizioni di potere all’interno della famiglia. Nel giro di poco tempo Carlo comincia a sfogare le proprie frustrazioni abusando fisicamente della moglie Connie (Talia Shire): viene per questo malmenato per strada da Sonny che in seguito verrà ucciso mentre sta per punirlo per l’ennesima volta. Quando Michael capisce che il suo omicidio è dovuto al tradimento del cognato, lo fa strangolare, definendo poi la disperazione della sorella come “isteria.”
È un mondo chiuso, quello dei Corleone, che vede con sospetto tutto ciò che è esterno: al massimo si può stilare qualche alleanza provvisoria con i potenti di turno, e perfino il consigliori Tom Hagen (Robert Duvall) non è ritenuto del tutto parte della famiglia, specie dopo la morte di Don Vito che lo aveva adottato quando era bambino. Non è marginale il fatto che oltre a non avere lo stesso sangue, quest’ultimo è di origine irlandese.
Una delle principali differenze tra le due famiglie è la reattività dei Corleone rispetto a quella dei Salina, dovuta al fatto che i primi hanno abbandonato la Sicilia: è lo stesso principe a spiegare a Chevalley, emissario di Cavour (Leslie French) che gli unici siciliani che possono cambiare sono quelli che vanno via dalla loro terra nei primi anni di vita. Nella stessa scena teorizza che la bellezza della Sicilia è indissolubilmente legata alla sua miseria e quindi rifiuta l’offerta di un seggio al senato che consiglia di offrire a Calogero Sedara.
È un suggerimento dettato dal totale disincanto, che fa seguito a parole che sconcertano l’ospite piemontese: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte…”.
Infine, al momento dei saluti, il principe pronuncia una delle frasi più celebri, che appare una giustificazione orgogliosa del proprio rifiuto: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.”
Sebbene appaia il contrario, in questa dichiarazione c’è l’amara consapevolezza che il suo dramma nasce dall’essere rimasto fermo in un mondo che sta cambiando rapidamente. Anche Vito Andolini non si sarebbe spostato dalla Sicilia, ma è stato costretto a fuggirne dopo l’omicidio dei genitori, e l’impiegato che ne registra l’arrivo a Ellis Island confonde il paese di provenienza con il cognome ribattezzandolo Vito Corleone. Coppola ci mostra tutta la sua solitudine quando canta una melodia della propria terra mentre guarda la statua della libertà: la vitalità e la promessa di opportunità di quella nuova realtà è autentica, e il successo e il potere arriveranno grazie al crimine per una scelta dovuta interamente alla sua volontà.
È una delle sequenze più commoventi dell’intera saga per la semplicità con cui ne viene immortalato l’ultimo attimo di innocenza e la malinconia per quello che ha abbandonato per sempre. Ma le grandi opere d’arte sono da leggere sempre su diversi piani: con un colpo di genio Coppola ci suggerisce che in quel momento il bambino sta intuendo misteriosamente il destino di chi preferisce le tenebre.
Un altro elemento che lega i due film sono le musiche di Nino Rota, ma se nel Padrino il tema principale è un valzer triste, nel Gattopardo il tono appare orgoglioso nella sua classicità, e non è un caso che nel film venga utilizzato anche un brano inedito di Verdi: Coppola e Visconti immortalano il mondo dei rispettivi personaggi, e nello stesso tempo si identificano con i loro sentimenti.
Ugualmente significativa l’impostazione della fotografia, dove è possibile invece scorgere differenze notevoli: Coppola chiede a Gordon Willis, soprannominato il principe delle tenebre, di sottoesporre costantemente le immagini, in modo da togliere ogni luce nelle pupille degli interpreti: gli occhi sono lo specchio dell’anima e i personaggi di questa saga criminale l’hanno condannata alla dannazione. Magnifica ed eloquente in tal senso la scena iniziale con Amerigo Bonasera (Salvatore Corsitto) che appare dal nero e dice: “Io credo nell’America, l’America ha fatto la mia fortuna”, prima di chiedere a don Vito di vendicare la figlia stuprata da due giovani.
Don Vito lo ascolta ripreso di spalle e solo quando Bonasera ha terminato di parlare ci rendiamo conto che indossa uno smoking e tiene in braccio un gatto. Scopriamo quindi che in quella stessa stanza sono presenti anche il figlio Sonny e il consigliori Tom Hagen, e ci accorgiamo che dalle imposte chiuse filtra la luce di una giornata molto luminosa. Quella riunione in cui si ordisce un crimine avviene in un ambiente immerso nel buio mentre all’esterno è in corso il ricevimento per il matrimonio della figlia del boss.
Diverso l’approccio fotografico voluto da Luchino Visconti, il quale ha richiesto a Giuseppe Rotunno di ispirarsi alla pittura ottocentesca: l’intera pellicola segue in maniera ineccepibile questa indicazione, ma le immagini trascendono la splendida illustrazione nella sequenza in cui viene immortalata l’intera famiglia Salina coperta dalla polvere all’interno di una chiesa: è un mondo ridotto a essere il monumento funebre di se stesso.
Ancora più indicativa la scelta fotografica operata nella lunghissima scena del ballo offerto dai nobili Ponteleone, girato da Visconti nel meraviglioso palazzo Valguarnera Gangi. Al termine di una festa sfolgorante, nel quale l’oro degli stucchi è esaltato dalla luce calda delle candele e dai meravigliosi abiti degli invitati, arriva inesorabile dell’alba, che Tomasi di Lampedusa definisce “plebea”: è un irrompere sgraziato che Rotunno interpreta con una luce bianca e violenta che spezza l’incanto della notte.
Non può essere che quello il momento in cui il principe viene trattato frettolosamente dal nipote prediletto, e a don Fabrizio non resta che piangere guardandosi allo specchio. È la scena più straziante del film, e l’alba plebea di Tomasi di Lampedusa è immortalata da Visconti in una toilette dove sono accatastate decine di urinali.
Piange per la fine del suo mondo, il principe, e non è un caso che poco prima lo abbiamo visto contemplare il quadro di un moribondo circondato dalla famiglia: la morte è uno degli elementi chiave di entrambe le opere, ed è interessante notare che nel Padrino l’unico personaggio che vediamo morire di morte naturale è proprio don Vito, ritratto, in un’altra scena memorabile, mentre gioca con il nipote.
A differenza dell’adattamento del libro di Puzo, sostanzialmente identico al film, la trasposizione cinematografica del Gattopardo termina prima dei capitoli finali, nei quali viene raccontata la morte del principe, il successo mondano che va di pari passo con l’infelicità coniugale di Tancredi e il declino della famiglia Salina. D’accordo con Luchino Visconti, gli sceneggiatori Suso Cecchi d’Amico, Enrico Medioli, Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile, hanno avuto l’intuizione di trasmettere l’incombenza della morte lungo tutto il film, e nella scena in cui contempla il quadro c’è una raffigurazione illuminante di cosa intendeva il principe quando diceva “la nostra sensualità è desiderio di oblio, (…) di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte…”.
La sequenza si conclude con Angelica che gli sfiora le labbra con un bacio: eros e thanatos si fondono, accentuando il senso di inesorabile decadenza. Ancora una volta riferimenti ad archetipi antichi, forse eterni, certamente epici.
Una volta ho avuto il privilegio di parlare del suo capolavoro con Coppola, e quando gli ho detto che secondo me il film era storia di Michael, un eroe di guerra che diventava un criminale nonostante le migliori intenzioni di distaccarsi dalla famiglia mafiosa, lui mi ha corretto ponendo invece l’attenzione su don Vito: “E’ la storia di un re con tre figli: il primo, Fredo ha preso dal padre la bontà, il secondo Sonny, la forza, il terzo l’intelligenza.”
È un approccio dichiaratamente epico: i personaggi diventano archetipi che agiscono in un mondo ancora primordiale, e quando cominciano a massacrarsi all’interno della stessa famiglia ripercorrono i sentieri delle più fosche tragedie shakespeariane. Se il patriarca muore con l’illusione che la famiglia Corleone possa diventare un giorno rispettabile, Michael si rende conto che l’unica possibilità di uscire dalla voragine morale nella quale è sprofondato richiederebbe una scelta che non ha il coraggio di fare: rinunciare al proprio potere.
Mi sono sempre chiesto se anche don Vito sarebbe arrivato a uccidere il proprio fratello. Probabilmente si, perché le regole aberranti di quel mondo portano a decisioni di questo tipo, e non si può sottovalutare il messaggio inviato all’esterno da quell’ennesimo crimine: chi tradisce muore, anche se è il fratello del boss.
Il fatto stesso che mi chieda come si sarebbe comportato don Vito nasce da una delle più grandi manipolazioni messe in atto nel film, e uso questo termine senza dargli alcuna accezione negativa: Alfred Hitchcock, solo per citare un nome, ne era maestro.
Nella pellicola Don Vito è immortalato come un leader saggio, rispettato e sinceramente attaccato ai propri cari, al quale hanno ucciso i genitori e trucidato un figlio, sul cui cadavere lo vediamo piangere. Per tutto il primo episodio l’unico gesto efferato di cui è responsabile è l’uccisione del purosangue del produttore che voleva rifiutarsi di scritturare Johnny Fontane: un atto agghiacciante, ma spero di non turbare gli animalisti affermando che non ha lo stesso peso dell’uccisione di un essere umano. Inoltre l’abominevole spettacolarità della scena in cui il produttore si ritrova la testa di cavallo nel letto finisce per avere più peso della gravità dell’atto.
L’unico altro crimine di cui si ha notizia nel film è la minaccia ad un discografico che aveva fatto un contratto capestro a Johnny Fontane: è lo stesso Michael a raccontarlo alla fidanzata Kay Adams (Diane Keaton), citando la frase pronunciata dal sicario Luca Brasi (Lenny Montana) al discografico, che ancora una volta finisce per sovrastare un gesto criminale avvenuto nel passato: “Su quel contratto ci sarà la sua firma o il suo cervello”.
È diabolica l’abilità con cui Coppola e Puzo costruiscono la personalità di don Vito: da autentico boss parla con un filo di voce per costringere gli interlocutori a sforzarsi di ascoltarlo, e l’unico momento in cui lo vediamo alzare il tono è durante la riunione delle cinque famiglie mafiose, quando accetta la tregua aggiungendo però, a proposito di Michael: “Perfino se fosse colpito da un fulmine, qualcuno dei presenti ne sarebbe responsabile, e allora io non perdono”.
È un linguaggio mafioso a dir poco raggelante, dove ancora una volta una suggestiva invenzione retorica mette in secondo piano la terribile minaccia, sigillando la carismatica dimensione criminale di un leader che agisce a difesa della propria famiglia. È solo nel Padrino parte seconda che vediamo il giovane don Vito (Robert De Niro) macchiarsi personalmente di delitti, ma il primo omicidio è nei confronti di don Ciccio, il capomafia siciliano ormai anziano (Giuseppe Sillato) che molti anni prima gli aveva ucciso il padre, mentre il secondo lo vede uccidere Fanucci (Gastone Moschin) un odioso boss della Mano Nera che terrorizza gli abitanti di Little Italy.
In quel momento don Vito appare come una specie di Robin Hood, e lo spettatore è portato a comprendere e perfino a giustificare le sue azioni, per via di un’ennesima manipolazione che influenza la dimensione etica dell’intera saga: i Corleone sono dei criminali, ma non c’è personaggio del film che non sia peggiore.
Questo principio rimane valido anche quando Michael prende il potere, massacrando tutti i boss delle altre famiglie mafiose mentre battezza il figlio. La sua convinzione dell’impossibilità di vivere un’esistenza “legit,” uscendo da una spirale di violenza, è presente in tutta la sua tragicità persino nel mediocre terzo episodio, che si conclude con l’uccisione della figlia Mary (Sofia Coppola), ma la morte della sua anima è avvenuta da tempo, e raffigurata nel primo piano con cui si conclude la seconda parte: Michael guarda il nulla davanti a sé mentre un sicario sta uccidendo il fratello Fredo, e poi ricorda un momento di serenità familiare avvenuto molti anni prima.
Tra quel momento idilliaco e l’orrore di quanto sta avvenendo c’è una cesura netta, mentre nel caso di don Fabrizio Salina assistiamo a un’accettazione decisamente meno cruenta ma non per questo meno dolorosa: dopo aver pianto, il principe si inginocchia e prega la stella del mattino per qualcosa di meno effimero. È cambiato tutto affinché non cambi niente, ma con quel pianto e con quella preghiera don Fabrizio ci dice che lui non è cambiato e ha ancora una coscienza.
La massima, diventata di uso comune, riassume in una sola riga il senso ultimo del film, e se è vero che gattopardismo ha un connotato negativo di cinico opportunismo, è evidente che Visconti soffra insieme al suo protagonista per la scelta operata.
È invece impossibile trovare una frase che riassuma il senso ultimo del Padrino, sia che lo si voglia considerare la storia di un re, il racconto della perdizione di Michael o la vicenda di una famiglia di criminali all’interno di una società giovane e in formazione.
Eppure la pellicola è piena battute memorabili: “E’ un’offesa alla mia intelligenza”, “gli ho fatto un’offerta che non poteva rifiutare,” “tieniti stretti gli amici e ancora più stretti i nemici”. C’è spazio anche per l’ironia: “Lascia la pistola, prendi i cannoli”.
Si tratta di due film costruiti attraverso sequenze passate alla storia nelle quali sono immortalati tradimenti, delusioni, minacce, seduzioni, innamoramenti, omicidi e un rapporto con la politica caratterizzata da brogli, corruzione e disillusione: nel dialogo già citato con don Fabrizio, Ciccio Tumeo scopriamo che il voto del plebiscito che dovrebbe celebrare l’auspicato cambiamento è stato in realtà truccato, mentre Michael Corleone dice a un senatore corrotto un’altra battuta memorabile: “Siamo due facce della stessa ipocrisia”.
Non è un caso che in queste due straordinarie opere fondate sui riti, alcuni dei momenti più memorabili siano legati a scene di danza: se nel Gattopardo, il valzer tra don Fabrizio e Angelica appare come il canto del cigno del patriarca, quello tra don Vito e la figlia Connie compie il miracolo di non farci vedere il pericoloso criminale, ma semplicemente un padre che danza con la figlia nel giorno del suo matrimonio. Come avviene del resto quando la madre (Morgana King) canta per Connie una canzone tradizionale della sua terra e poi le dice in italiano “figlia mia benedetta”.
Poche attrici risultano indimenticabili apparendo per così poco tempo sullo schermo, e anche quella sequenza compie il miracolo e di farci vedere soltanto una madre del sud commossa e orgogliosa per la figlia.
Nulla di più distante rispetto alla donna che vediamo accanto a Hyman Roth (Lee Strasberg), il boss ebreo ispirato a Meyer Lansky che tenta di distruggere i Corleone. Compare due volte e non capiamo se è la moglie, la compagna o un’amante occasionale: con un’ennesima soluzione magistrale Coppola non ce ne mostra il volto e quello che vediamo è solo che è bionda e formosa, e che Roth la tratta come se fosse al suo servizio.
Non c’è bisogno di aggiungere altro per raffigurare il ruolo della donna all’interno di queste strutture criminali e in particolare il suo rapporto con un boss che non ha a cuore la famiglia. Sia Il Padrino che Il Gattopardo sono due film dominati dalle figure maschili, ma questo non significa che i ruoli femminili non siano delineati perfettamente, con pochi colpi di pennello. Non è meno distante da Mama Corleone la wasp Kay Adams, fidanzata e poi moglie di Michael, dopo che quest’ultimo è rimasto vedovo di Apollonia (Simonetta Stefanelli), una giovane donna siciliana uccisa al suo posto durante il periodo è stato costretto a nascondersi nella sua terra d’origine.
Kay ama Michael fin quando lui promette di non seguire le orme paterne e poi gradualmente se ne distacca sino alla separazione, successiva alla scelta di abortire “per non mettere al mondo un altro criminale”. Il primo episodio del film si chiude sul suo primo piano che capisce che ha iniziato a mentirle ed è diventato il nuovo padrino: scelta estremamente più potente rispetto al libro, che la vede andare in chiesa ad accendere una candela per Michael.
L’ultimo personaggio femminile di rilievo è Connie, il cui percorso drammaturgico la vede evolvere da una giovane insicura che accoglie urlando Johnny Fontane come una groupie nel giorno del suo matrimonio a una donna ferita, dura e spietata, totalmente organica alla sua famiglia criminale. Lungo l’arco narrativo la vediamo chiedere del denaro a Michael per poter sposare un uomo che lui disapprova e poi intercedere, inutilmente, per Fredo. Quando l’ascoltiamo affermare che quest’ultimo non è stato ucciso, ma è annegato comprendiamo che la sua metamorfosi si è completata, e nel terzo episodio sostituisce Tom Hagen nel ruolo di consigliori, divenendo una specie di Lady Macbeth.
Se Angelica Sedara è una delle protagoniste del Gattopardo, non si può minimizzare il ruolo della principessa Salina, che appare costantemente nel film, ma ha pochissime battute. Di lei sappiamo che non si concede totalmente neanche durante gli amplessi con il marito, e prima di protestare con lui per la decisione del fidanzamento tra Tancredi e Angelica la vediamo salutare gelidamente quest’ultima quando arriva a Donnafugata: ha capito tutto, come del resto padre Pirrone (Romolo Valli), il sacerdote di famiglia, che nel film non ha la stessa levatura intellettuale del romanzo, dove tiene testa al principe. In entrambe le pellicole, il rapporto con la religione è vissuto su un piano quasi esclusivamente rituale, ma né don Fabrizio, né i Corleone hanno l’intenzione di tagliare i ponti con un elemento che è parte fondante di quello che sono.
È significativo ricordare che sia Coppola che Visconti furono scritturati dopo che erano stati presi in considerazione altri cineasti: per Il Padrino Sergio Leone, Peter Bogdanovich e Sam Peckinpah, mentre per Il Gattopardo Ettore Giannini. Si tratta quindi di film realizzati su committenza, che i due registi sono riusciti a trasformare in opere estremamente personali: se l’assonanza tra Visconti e il personaggio di don Fabrizio risulta relativamente immediata, quella tra Coppola con don Vito è da leggere sul piano della concezione dell’esistenza, nella quale hanno un ruolo centrale la famiglia e il rifiuto di essere una marionetta manovrata da altri.
Anche i magnifici interpreti non sono state le prime scelte: oggi ci appare inconcepibile immaginare Il Padrino senza Marlon Brando e Il Gattopardo senza Burt Lancaster, ma per entrambi i film si era pensato a Laurence Olivier, e per quanto riguarda il ruolo di Michael Corleone, prima di Al Pacino erano stati presi in considerazione Warren Beatty, Robert Redford e Ryan O’Neal.
All’epoca della pubblicazione, il romanzo di Tomasi di Lampedusa venne accolto in Italia negativamente dal mondo intellettuale, in particolare quello di sinistra, che accusò il libro di raccontare il Risorgimento dalla parte degli aristocratici. Anche grazie al successo artistico del film, il giudizio venne poi smentito dalle stesse persone che avevano accusato il romanzo di essere reazionario, e a questo riguardo non si può sottovalutare uno spostamento di asse: se il libro racconta la vicenda dalla parte degli sconfitti, il film lo fa con lo sguardo dei vincitori.
A rivederlo oggi non ha perso nulla della sua grandiosità e profondità, e gli unici momenti meno felici sono a mio avviso la scena della battaglia di Palermo, lontana dalle corde registiche di Visconti, e un passaggio temporale risolto con un’improvvisa voce fuori campo: parliamo tuttavia di difetti irrisori all’interno di un capolavoro che rivela tesori nascosti a ogni visione.
Termine che uso a maggior ragione per un film perfetto come Il Padrino, dove l’unica scena che personalmente amo di meno è la mattanza dei mafiosi montata in parallelo con il battesimo del primogenito di Michael: una trovata potente ed efficacissima, ma in qualche modo più prevedibile nella sua giustapposizione a effetto. Oltre a quelle già citate, le sequenze in cui il film risulta inarrivabile sono altre, e in apparenza meno spettacolari, con le quali Coppola spiazza e poi seduce lo spettatore raccontando la quotidianità di uomini che hanno scelto il crimine.
Penso ad esempio alla scena in cui Clemenza (Paul Castellano) prende in giro Michael che sta parlando al telefono con la fidanzata e gli dice: “e diglielo che le vuoi bene!” o quando si dilunga a insegnargli come preparare il ragù alla siciliana. In quel momento è in corso una guerra mafiosa, e rispetto all’evoluzione drammaturgica della storia queste scene possono apparire una divagazione, eppure sono proprio questi momenti di verità quelli in cui il film dimostra la propria grandezza artistica.
Ancora più del libro, la pellicola ha scatenato una violenta reazione da parte degli italo-americani per una raffigurazione ritenuta dannosissima per l’intera comunità. L’accusa è diametralmente opposta a quella di chi sostiene che il film glorifichi la mafia con un’immagine nobile e romantica. Personalmente contesto entrambe le obiezioni, perché le efferatezze raccontate sono circoscritte al mondo mafioso, e non si può negare che siano tragicamente vere: non hanno quindi nulla di nobile e raggelano qualunque tipo di fascino o, peggio, possibile identificazione. Quello che seduce il cuore dello spettatore non sono le azioni, nel caso del Padrino spesso mostruose, ma cosa rimane di umano anche nel più efferato dei criminali e di fragile e vulnerabile nel più privilegiato degli aristocratici.
Lo sguardo di Coppola e Visconti è umanista e la scelta stilistica combina l’epica con la classicità: il processo di identificazione avviene quindi con due patriarchi nell’autunno della propria esistenza, giunti amaramente alla conclusione che cambiare il mondo è la più grande delle illusioni.
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