Un’intervista con Mark Cousins è sempre un viaggio. L’ultima volta era a Roma, alla Festa del Cinema, e di persona fu travolgente. Alla fine della chiacchierata sul suo bellissimo e sconvolgente Marcia su Roma (su come, per semplificare, il fascismo mise su la fake news più clamorosa del secolo e che rovinò il mondo) srotolò un foglio infinito, una sorta di cinepergamena in cui aveva inciso con grafia minuta e vulcanica ogni dettaglio, pensiero, visione della sua opera.
Ora presenta The Story of Film: New Generation, un’opera che è il sequel di The Story of Film: an Odissey. Nel 2011 (uscì il 3 settembre di quell’anno, ma la produzione iniziò nel 2004!) quest’ultimo, con i suoi oceanici 930 minuti, fu un successo clamoroso. Premiato con lo Stanley Kubrick Award e il Peabody Award, fu anche nominato ai BAFTA.
Dieci anni dopo, attraverso le immagini più potenti dell’ultimo decennio, Cousins ha aggiunto un nuovo capitolo e torna ad analizzare il presente e il futuro del cinema proprio con The Story of Film: A New Generation, in esclusiva il 3 gennaio 2024 alle 21.15 su Sky Documentaries.
Il film è una carrellata in due parti sul cinema mondiale dal 2010 al 2021 e parte da Joker e Frozen e da The souvenir e Abou Leila per l’esplorazione del nuovo linguaggio cinematografico e del ruolo della tecnologia nel cinema contemporaneo.
La rivoluzione industriale e culturale del grande schermo è raccontata attraverso i film, i registi e le comunità sottorappresentate nelle storie cinematografiche tradizionali, con particolare attenzione alle opere asiatiche e mediorientali. “Un gioioso processo di scoperta” lo ha definito il regista. “Abbiamo un DNA comune, tu ed io e chiunque ami il cinema. Siamo la stessa specie. Siamo la specie del cinema. E quindi
dobbiamo continuare ad assicurarci di aggiornare le nostre conoscenze”.
E sotto la lente d’ingrandimento non c’è quindi solo l’arte, le immagini in movimento, quindi, ma anche il popolo di appassionati, cinefili, autori. A The Hollywood Reporter Roma racconta come li ha guardati e raccontati.
Mark, lei ama le impresse impossibili. Dopo aver svelato una fake news cento anni dopo, con Marcia su Roma, torna alla sua enciclopedia cinematografica. Quasi 930 minuti nel 2004, per gli ultimi dieci anni un lavoro in due parti di “soli” 160 minuti. Chi gliel’ha fatto fare?
Quando ho finito la prima parte ho pensato: mai più. Ero molto stanco, avevo girato il mondo senza sosta realizzandolo con un budget molto ridotto. Fu davvero l’odissea che poi misi nel titolo. Un’opera dettata dalla passione, anzi dall’ossessione che ho per quest’arte. Poi, però, il mondo, la società, la tecnologia sono cambiate: cineprese più piccole, GoPro, nuove piattaforme di visione, in streaming e non, era impossibile non aggiornare, completare quel lavoro. In un decennio ci sono stati più cambiamenti che nel secolo precedente, o quasi.
Più vedevo il cinema trasformarsi, più tornava la voglia di raccontarlo, capire e spiegare queste rivoluzioni. Il Covid è stato il turning point decisivo, quello è stato un periodo di riflessione importante per autori e spettatori, che sono stati costretti a pensare all’importanza di questa forma di narrazione nella storia, nelle nostre esistenze.
Di sicuro ha dato molto tempo a me per pensarci.
C’è stata anche una rivoluzione culturale, oltre che tecnologica. Ha influito anch’essa nella scelta di tornare su questa sua personalissima e alternativa storia del cinema?
Il cambiamento culturale, sociale, di mentalità, il cambiamento sociale sono stati persino più importanti. Nel mio lavoro l’aspetto più politico, storico non può non esserci. Nei dieci anni che racconto (il film è del 2021) ci sono stati nuovi movimenti di liberazione, molte migrazioni, sociali ed economiche, un modo diverso e più aperto di parlare e vivere la sessualità, un ragionamento sull’identità, in positivo e negativo, molto approfondito.
Si sa che il cinema, in presenza di questi sconvolgimenti e massimi sistemi, risponde bene, sa metterle in drammaturgia e divenire un luogo di analisi emotiva e intellettuale di tutto ciò. Il racconto per immagini è uno specchio del mondo ed è inevitabile voler scorgere cosa viene riflesso su quella superficie.
Dopo questo film, questo studio, pensa che il cinema sia un’avanguardia o una retroguardia?
È entrambe le cose, sai, il cinema è stato dalla parte degli angeli e dei diavoli nel corso della storia, è stata una forza per il bene nel mondo, ma ha fatto anche cose molto brutte, o meglio è stato un mezzo per metterle in atto, penso alla propaganda e un’opera come Marcia su Roma che svela quanto possa essere potente, devastante, nelle mani sbagliate.
Il cinema è contraddizione, è una delle sue qualità, ma va detto che la storia del cinema e della nuova generazione che vedrete in questo inizio anno è chiaramente incentrato sulle sue parti innovative, che stanno cercando di mostrare, di stare al passo con la società e l’identità, la modernità, e di celebrare i cambiamenti del nostro mondo,
Analizza anche delle case history? Penso alla parabola della Disney degli ultimi anni, la pianificazione narrativa e artistica dell’inserimento, nelle storie, di temi come diversità e inclusività.
Credo che si evinca dal film, perché è un ruolo che quest’arte ha sempre ricoperto nel mondo, quella di anticipare ciò che sarebbe successo e in qualche modo persino aiutarlo. Se guardiamo indietro, alla MGM, e a quello che voleva Louis B. Mayer, troviamo opere molto programmatiche, film convenzionali e conservatori, quindi forse non è cambiato molto. Non certo nel metodo, magari, per fortuna, nell’obiettivo.
Non si deve essere snob nell’analizzare la direzione che prendono i prodotti mainstream, non bisogna essere elitari quando vedi certi film, perché sono quelli che intervengono di più nell’immaginario collettivo.
Penso, per esempio, all’ottimo lavoro che sta facendo nelle ultime stagioni lo Spider-Verse. In Inghilterra quelli che storcono il naso di fronte a certi kolossal e che dicono che tutto sta peggiorando, li chiamo pessimisti culturali. Ecco, guardando tutto ciò che mi è servito per questo film, dico che è davvero difficile affermare che il cinema sia peggiorato.
Una cosa affascina molto: il cinema è un media anacronistico, ma rimane molto attuale. Nel suo film lei lavora sulla storia del cinema, l’intellettuale Slavoj Žižek, fonda gran parte della sua filosofia sulla Settima Arte. Con tanti media a disposizione, rimane centrale ciò che racconta e come. Perché, secondo lei?
Questa è una grande domanda, ma, sai, credo abbia una risposta semplice. Il cinema, semplicemente, non è anacronistico, ma senza tempo. Penso che sia facile essere nostalgici del cinema degli anni ’60, se si ha una certa età, ma così dimentichiamo che è un’arte molto giovane, ma non abbastanza da non spingerci, a volte, a guardarci indietro.
Però guarda TikTok, se lo analizzi attraverso il linguaggio che usa, scopri un’attitudine che assomiglia ai primi film dei fratelli Lumière: scene brevi, battute di 30 secondi. Uno come Alfred Hitchcock sarebbe stato bravissimo con un social di questo genere, quindi penso che il cinema non sia anacronistico, è da decenni un intrattenimento del presente, si fa sentire qui e ora con una tale vivacità, con una tale euforia, che ibrida tutti i mezzi, tutti i linguaggi, forma le nuove generazioni e cambia il nostro modo di esprimerci.
Sa essere allo stesso tempo laboratorio e linguaggio di massa. La verità è che il cinema è appena arrivato, anzi sta arrivando, è nel suo zeitgeist in questo momento, più che negli anni ’40 o ’60. Anche perché per quanto possiamo aver nostalgia della predominanza della sala, viviamo in un mondo in cui ogni capolavoro è accessibile. Io hio 58 anni e sai quanto mi ci è voluto per riuscire a vedere Quarto Potere? Dieci anni.
Allo stesso tempo non è cambiato il mio approccio con quell’esperienza, con le emozioni della sala: Martin Scorsese mi scuote ancora fisicamente quando mi siedo su una poltrona per vederlo appena uscito. E quello stare tre o quattro ore di fronte allo schermo, paziente e senza la possibilità di essere distratto, continua a lavorare su un aspetto profondo di me e di tutti gli spettatori. Lì, nel buio, ancora perdiamo il controllo, siamo trascinati da qualcosa di magico.
E sai perché? Perché quel tipo di esperienza collettiva, che sia il cinema o un concerto o qualsiasi altra cosa, fa parte della natura umana.
Prima il cinema narrava il reale, il verosimile. Poi si sono contaminati. Ora il reale è cinema: Zelensky è un Tom Cruise ucraino, tutto si presenta in maniera cinedrammaturgica nell’attualità, tutto ha una narrazione e una rappresentazione.
Penso che sicuramente sia successo qualcosa, i confini tra il mondo concreto e quello cinematografico si sono confusi e sovrapposti, hai ragione.
Ma il cinema sa conservare la sua magia con Apichatpong Weerasethakul che realizza Cemetery of Splendour o con una straordinaria cineasta come Alice Rohrwacher che fa La Chimera, o ancora meglio Lazzaro Felice, e con un Michelangelo Frammartino che ci offre Le quattro volte e così mettono in discussione tutto e tutti.
Le domande che pongono loro o in passato Kiarostami rimangono ancora fondamentali.
Ovvio che non possiamo però negarci che tutto è diventato visivo, che tutto è uno schermo ora e il mondo è un cinema. Ma le grandi domande si nascondono ancora nell’arte e nella finzione. Ed è quello che ci fa resistere ai Bolsonaro o agli Orban, a chi vuole relativizzare tutto, a partire dalla verità. Perchè quando lo fai, nulla ha più importanza e per questo motivo è centrale il lavoro di autori che vanno a fondo delle nostre anime e degli interrogativi più intimi, perché ci impediscono di credere che questo nichilismo sia la strada.
Sarà che molti di noi hanno solo paura che la finzione possa modificare la realtà e farci perdere in un Matrix in cui pillola rossa e blu avranno lo stesso sapore.
Lo capisco, è uno strumento potente e in quanto tale tanto prezioso quanto potenzialmente pericoloso. Sono, però, più ottimista di te perché i miei viaggi enciclopedici in questa arte mi hanno mostrato, mi stanno mostrando che il cinema stia dicendo cose davvero grandiose sulla gioia,
sulla tristezza, su tutti gli aspetti dello spettro umano.
Poi, conta da che angolo visuale guardi le cose: ci sono anche parti del mondo in cui, come nel vostro Paese, per esempio, la TV negli anni ’80 e ’90 ha iniziato a diventare spaventosamente superficiale, e al momento qui nel Regno Unito anche la BBC è un po’ in pericolo, ma i grandi geni dietro la macchina da presa continuano a ricordare chi siamo veramente come esseri umani.
Questo sarà oggetto di un suo futuro lavoro?
Sto facendo una grande storia del cinema documentario di 15 ore. Ho girato il mondo guardando come i documentari lo hanno cambiato in meglio e in peggio. Ci saranno entrambi i punti di vista: io, l’ottimista cinematografico, e tu, il pessimista culturale.
Ricordo che la sceneggiatura di Marcia su Roma lei l’ha scritta a mano su un rotolo di fogli attaccati l’uno all’altro, lungo metri. Ha fatto lo stesso anche per The Story of Film: A New Generation?
Sì, è un buon modo di lavorare, molto creativo, quella sensazione che provi quando scarabocchi su grandi fogli di carta mantiene vivo il tuo film. È un ottimo modo per strutturare qualcosa e non sai quanto è d’aiuto nel montaggio.
Le nuove generazioni usano il cinema, il documentario, le serie televisive e le docuserie come strumento di formazione. Spesso, semplicemente, diventano fonti primarie per l’apprendimento. Questo fa capire quanto sia fondamentale un lavoro come il suo. La sfida della Settima Arte nel futuro è questa?
La nuova generazione usa soprattutto le docu-serie e poi il cinema per farsi un’opinione, per informarsi sul mondo. E ancora, questo, ovviamente, mi fa ben sperare, ma mi preoccupa anche. Faccio un esempio: ora leggo due libri a settimana, ma da giovane ero un pessimo lettore. E guardavo molto cinema, per rimediare.
Ho scoperto dopo di avere una non lievissima forma di dislessia non diagnosticata e quindi posso capirli: posso dire di aver imparato a capire prima le immagini delle parole.
Questa, però, per noi registi è anche una responsabilità e lo è pure per i governi: non c’è più tempo ormai per procastinare l’inserimento dell’educazione audiovisiva nelle scuole, altrimenti questo nuovo potere formativo del cinema potrebbe divenire manipolatorio, subliminale.
In Scozia, dove mi trovo, abbiamo appena avviato un nuovo brillante programma in cui ai bambini di tre e quattro anni nelle scuole viene insegnata l’alfabetizzazione visiva, e se insegniamo Shakespeare o Dante, allora dobbiamo insegnare anche Zurlini e Pasolini, Powell e Pressburger. E dobbiamo farlo fin dalle elementari, perché oggi sappiamo di più sulle neuroscienze e si tratta di rispettare il loro modo di apprendere, che è profondamente visivo e ancora poco letterario in quella fascia anagrafica.
Magari con i suoi film?
Sarebbe bello. Sono figli di una grande passione, di un enorme amore per il cinema. E magari potrebbero trasmetterlo. Ne sarei onorato, anche se non sono nati per questo, credo potrebbero essere utili.
Può parlarci del nuovo progetto, oltre alla titanica opera omnia sul cinema documentario mondiale?
Quello puoi vederlo sulla parete che ho alle spalle (indicando metri di fogli scritti con grafia precisa e minuta – ndr). Ho poi appena finito un film su una pittrice che in realtà ha una componente italiana. La pittrice si chiama Wilhelmina Barns-Graham Trust e ha trascorso parte del suo tempo, venendone profondamente influenzata, in Italia, e per questo progetto sto lavorando di nuovo con il grande Andrea Romeo (numero uno di I Wonder Pictures).
Il film è appena finito e sarà proiettato da qualche parte l’anno prossimo.
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