Il Padrino ha una storia particolare. Divenuto un grande classico, come e più del best seller di Mario Puzo omonimo, da cui è tratto, è una delle colonne della New Hollywood, frutto anche dell’iniziale difficoltà nel trovare tutti i tasselli del puzzle.
Paura e fascino del Padrino
L’argomento mafioso e l’angolatura particolare con cui è trattato – quella della leadership carismatica del Don, inevitabilmente affascinate – fa paura a molti. Che rifiutano di farne parte, maledicendo poi quella scelta. Uno tra tutti, nella parte di Don Vito Corleone, Burt Lancaster, che pure da terza scelta ne Il Gattopardo, quasi 10 anni prima, sapeva come nei rifiuti altrui si annidi il proprio successo. Disse di no anche Orson Welles e persino Gian Maria Volonté, che però almeno lo fece per coerenza alla sua visione del mondo. Francis Ford Coppola non solo fu una quinta scelta, ma la Paramount provò a cacciarlo a più riprese durante il set, a detta della casa di produzione per la sua incapacità di rispettare budget e tempi e per le scelte di cast. Lo stesso regista non si dimostrò lungimirante quando inizialmente rifiutò di farne una trilogia, fermamente.
Tra le scelte di Coppola poco apprezzate ci furono James Caan (preferito a De Niro, che poi però ne Il padrino parte II divenne Vito Corleone giovane) e soprattutto Al Pacino, che molti non ritenevano all’altezza e che dopo i primi giornalieri ebbe contro una fronda produttiva che voleva altri attori nella parte di Michael.
Un carattere difficile
Tornando a Don Vito, insomma, Marlon Brando per il suo carattere difficile, per il costo e per la tendenza a fare numerosi ritardi fu preso controvoglia. Ma fu la fortuna de Il Padrino, come dimostra la scena iniziale in cui si delinea la figura di questo boss mafioso che ha ucciso poco nella sua vita (per prendere il potere da giovanissimo, per vendicare la moglie italiana) ma che ha fondato tutta la sua capacità di influenzare la sua comunità e il suo mondo nel timore reverenziale, il rispetto delle sue regole e il carattere intimidatorio e carismatico di ogni suo gesto e ordine o decisione.
Che sia una testa di cavallo o un anulare che ieraticamente si appoggia su una guancia (piena di ovatta, Brando la usava per simulare lo strascicato slang del padrino e dare al suo viso una forma più adatta a un “grande capo”).
Gesti simbolici
Il Padrino è un film, una saga fatta di gesti simbolici. Come, anche, quello di Michael che a L’Avana stringe tra le mani la testa di Fredo con violentissimo e disperato affetto dicendogli che gli ha spezzato il cuore, proprio mentre scocca il capodanno o il ballo di un matrimonio.
Brando era il maestro di gesti, sguardi, movimenti calibrati con retorica perfezione. Un’unione perfetta.
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