“Voilà une belle morte”, sibila Napoleone mentre a cavallo visita il campo di battaglia, che ormai è solo una distesa di cadaveri. E’ il corpo inerme di Andrej Bolkonskij quello che gli fa dire la mitica frase. Il quale Bolkonskji, in verità non è ancora morto. Anzi, quel che lo sovrasta e lo emoziona è il cielo, alto, immenso e sublime. Ebbene, questa scena non c’è in Napoleon, il super-mega kolossal di Ridley Scott.
E’, invece, uno dei momenti più celebri di Guerra e Pace, di Lev Tolstoj. E’ invece, una scena meravigliosa del film che ne fece il russo Sergej Bondarciuk nel 1966. La battaglia di cui sopra è quella di Austerlitz, 2 dicembre 1805. Per Napoleone la vittoria più grande di sempre.
Tolstoj, come si sa, aveva una pessima opinione dell’imperatore francese, ne dice di cotte e di crude. E il regista di Blade Runner evidentemente la pensa allo stesso modo: nelle due ore e trentotto della sua sontuosa epopea (in sala dal 23 novembre per Eagle Pictures, in seguito approderà su Apple Tv) ne fa un ritratto tutt’altro che tenero, con la complicità del protagonista, Joaquin Phoenix: il suo Bonaparte è proprio un buzzurro corso, abbastanza stolido da giovane ufficiale, è uno che ansima di continuo, si agita, è di pessime maniere, fa l’amore come un leprotto, si comporta come un bambino davanti alla terribile mamma, appare fondamentalmente privo di principi che che non siano quello di rincorrere, nella sua megalomania, le orme di Alessandro Magno.
Ed è qui il paradosso – l’inghippo, se preferite – di Napoleon, lungometraggio numero 28 nella carriera del regista britannico, che ha all’attivo sia grandi capolavori che ciofeche spaventose (una su tutte Hannibal, del 2001): non sa decidersi se essere un kolossal epico-guerresco oppure un immenso esercizio di satira storico-sociale. Non che sia un equilibrio impossibile: è proprio per questo che citiamo Tolstoj, perché Tolstoj per l’appunto ci è riuscito benissimo. Sin dalle prime pagine, Guerra e Pace è intriso di un’ironia formidabile, feroce eppur lieve, che non toglie una virgola alla potenza del racconto epico dei popoli, dei giganti della storia, del destino dei singoli, dei crocevia della storia.
Il Napoleone di Ridley Scott invece vorrebbe essere, anche, la tragedia buffa di un uomo ridicolo: non fosse che è uno che prende a cannonate tutto quello che gli capita sotto tiro – prima gli inglesi a Tolone, poi un’orda di monarchici, poi le piramidi d’Egitto, ad Austerlitz perfino il ghiaccio – sarebbe una figura patetica. Joaquin Phoenix evidentemente non è stato scelto a caso: ma qui non può liberare fino in fondo il Joker che è in lui, e neanche il Commodo del Gladiatore (altro caposaldo della filmografia di Scott), semplicemente perché far passare Napoleone per un pazzo scatenato sarebbe stato forse un tantinello eccessivo, oppure una scelta non adatta ad un’epopea.
In pratica, Napoleon è costruito come una suite musicale: l’architrave su cui si regge tutto è l’amore per Giuseppina di Beauharnais, aristocratica prima caduta in disgrazia e poi in effetti divenuta sua moglie (salvo venir costretta al divorzio non perché infedele, ma in quanto non gli genera un erede), in un racconto che è un po’ un the best of di Napoleone, essendo che va dalla Rivoluzione francese all’esilio finale sull’isola di Sant’Elena.
C’è proprio tutto: Maria Antonietta ghigliottinata con tanto di testa mostrata alla folla esultante, Robespierre (anche lui ridicolo) ed il Terrore, le Piramidi, la campagna del 1805 contro austriaci e russi (Austerlitz, appunto), la campagna di Russia, l’esilio all’Elba, la disfatta Waterloo e la noia da pensionati a Sant’Elena.
Ecco forse gli storici avranno da ridire: un tempo Napoleon sarebbe stato considerato un film reazionario. Nel senso che mostra il lato abominevole della Rivoluzione francese, ma si dimentica di spiegare o anche solo di alludere al resto, ossia al fatto che il 1789 è stato uno dei più grandi motori di modernità della storia, così come si scorda di dire che l’era napoleonica nel suo complesso ha significato un balzo d’innovazione cruciale per l’evoluzione delle umane genti (vedi alla voce diritto civile, dopo secoli di buio monarchico). In pratica – paradossale in una produzione di queste dimensioni – il film sembra soffrire di una scrittura frettolosa (la sceneggiatura è firmata da David Scarpa).
Solo la Giuseppina di Vanessa Kirby (senza dubbio di gran lunga la migliore in campo) emerge come figura di estremo fascino, in cui si affollano ombre e luci, passioni e dolori, bellezza e sofferenza, della quale innamorarsi è il minimo che si possa fare: è tutto suo il magnetismo dello schermo, quando sussurra all’orecchio di Napoleone “voi siete una nullità, non valete niente senza di me: ripetetelo”.
Poi, certo, ci sono le battaglie. E quelle, obiettivamente, sono strepitose. E’ lì che Ridley Scott si ricorda di essere Ridley Scott: eserciti immensi che si attorcigliano l’uno sull’altro fino a diventare quasi metafisici, il ghiaccio di Austerlitz, la pioggia di Waterloo, la cavalleria all’assalto, le palle di cannone che squarciano i corpi. E’ vero, le guerre settecentesche e primo ottocentesche forse sono le più “belle” a raccontarsi, nella geometria dei movimenti delle truppe, nello sferragliare delle sciabole e delle baionette, con le tende da campo dei grandi generali elegantissimi a dispensare ordini (e qui non si può non notare quanto si compiaccia Scott nel ritrarre il volto soddisfatto di Wellington – un incredibile Rupert Everett – nello sbaragliare Napoleone a Waterloo).
Epperò qui va detto che il buon Ridley ha avuto gioco facile nel ricorrere alla sua stessa storia, ai Duellanti, il suo esordio del 1977 – tratto da Joseph Conrad – che fu giustamente premiato a Cannes, con quelle inquadrature ormai proverbiali prese in prestito dalla grande arte del neoclassicismo. Ma ancora di più non fa mistero, Scott, d’essere debitore di Stanley Kubrick e del suo Barry Lyndon, delle scene illuminate solo dalle candele: la differenza è che in Kubrick anche il ritratto più caldo è glaciale e ironica ferocia, in Scott è più che altro esercizio di stile, benché di gran livello. D’altronde l’immenso Stanley è riferimento necessario e imprescindibile anche per un altro motivo: si sa che il maestro di Shining e di 2001 Odissea nello Spazio voleva, sulla scia del capolavoro del 1927 di Abel Gance, realizzare il proprio Napoleon, che finì per essere la sua ossessione incompiuta.
Il punto è che Stanley difficilmente avrebbe compiuto gli errori grossolani di Sir Ridley: non solo quello di non sapersi decidere tra kolossal epico e satira sociale, ma anche quello di aver buttato alle ortiche il vero appuntamento di Napoleone col destino e con la propria megalomania. Sì: la campagna di Russia, la battaglia di Borodino, l’incendio di Mosca abbandonata dallo zar e dai moscoviti, l’inferno dell’inverno (russo). Fu quello l’inizio della fine, per Bonaparte. Il regista di Blade Runner se la cava in circa dieci minuti, alla facciaccia di Tolstoj. Ma così facendo decreta la propria Waterloo.
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