“Ogni volta che faccio un film da qualche parte c’è qualcosa che sto cercando di rubare da Steven Spielberg”, racconta Wes Anderson a Milano a The Hollywood Reporter Roma, parlando di Asteroid City, nuovo film in uscita in Italia il 28 settembre. Cinquantaquattro anni, curatissimo nell’abbigliamento e fine nei movimenti, esattamente come ci si aspetterebbe da un suo film, è seduto su una poltrona in fondo alla sala Club dell’Hotel Principe di Savoia. Indossa colori tenui, fra il rosa e il beige, i capelli biondi gli cadono perfetti sulle spalle, ma ciò che si nota di più sono il sorriso aperto, i modi cordiali. Si gira e traffica un po’ con la finestra per aprirla e far entrare un po’ d’aria. Ha un tono di voce affabile, disteso e alla mano e parla un inglese limpidissimo.
Asteroid City è un film su due livelli: da una parte, girata in bianco e nero, la storia di un celebre drammaturgo che sta scrivendo appunto Asteroid City e degli attori della pièce. Dall’altro il coloratissimo intreccio, col suo sfondo di cielo azzurrissimo e deserto a metà fra la Monument e la Death Valley: siamo nel 1955 in un minuscolo paesino degli Stati Uniti, ed un gruppo di ragazzini aspiranti astronomi, riuniti per un convegno in occasione dell’“asteroid day”, si ritrovano ad assistere a un incontro ravvicinato con un extraterrestre che ruba l’asteroide. Così l’esercito americano costringe loro e i loro genitori a una breve quarantena.
Asteroid City, che raccoglie star come Scarlett Johansson, Tom Hanks e Jeff Goldblum, ricorda molti film di genere americani, la tipica cittadina isolata degli Stati Uniti in cui appaiono gli Ufo, come X-Files o Incontri ravvicinati del terzo tipo. Che rapporto ha con quella tradizione cinematografica? È un appassionato?
Incontri ravvicinati del terzo tipo sì, l’ho visto infinite volte. Invece X-Files no, anche se sento che dovrei, e fra l’altro Gillian Anderson e David Duchovny sono due attori che mi piacciono moltissimo.
E quali sono state allora le influenze principali?
Direi che ogni volta che faccio un film da qualche parte c’è qualcosa che sto cercando di rubare da Steven Spielberg. Conosco molto bene il suo lavoro e ci trovo ogni volta lezioni, soluzioni per trovare il modo migliore di raccontare una storia. Incontri ravvicinati del terzo tipo è una storia estremamente strana e originale ed è raccontata in maniera interessantissima: è davvero un grande film. E se si gira un film in cui ci sono un deserto e un alieno, beh, è necessariamente fra i riferimenti principali.
In Asteroid City però si evocano anche quel genere di storia a matrioska che può andare dai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello a Venus in Furs di Roman Polanski a mille altri. C’è il piano dei personaggi e quello degli attori, la realtà e la finzione, ma anche il sonno e la veglia, la vita e la morte.
Conosco i Sei personaggi di Pirandello e ora che mi ci fai pensare ho visto anche Venus in Furs, ma non ci avevo pensato. Polanski è uno di quei registi il cui modo di girare è particolarmente forte e peculiare. Alcuni dei suoi film sembrano davvero delle pièce teatrali. Ecco, qui c’è la storia nella storia, ci sono i vari livelli, ma per me il filo conduttore è uno. Anche se c’è il teatro e ci sono gli attori e tutti i diversi piani di narrazione, è come se la storia fosse una cosa sola. Ogni personaggio è sia personaggio che persona e io li vedo come un’unica cosa che sta insieme e che in sé contiene tutti quei diversi aspetti. Asteroid City è un film difficile da descrivere. Perché ci sono tutti questi piani? Non lo so, è come se dovesse essere così, è il modo in cui la storia ha preso vita.
Qual è la relazione fra il mondo dei bambini o adolescenti e il mondo degli adulti in Asteroid City, e in generale nei suoi film?
In questo film in particolare è un aspetto molto presente. Gli adolescenti stanno nel loro mondo separato, non sono veramente inseriti e coinvolti nel mondo diciamo “reale” degli adulti. E le bambine più piccole ancora di più, sono solo tre ma sono completamente immerse nella loro bolla. Ma in realtà trovo che sia un elemento abbastanza normale nella vita di tutti. Le persone si scelgono tra loro e si costruiscono delle bolle intorno. Ogni tanto si vedono ancora situazione in cui uomini e donne si dividono in gruppi separati e parlano di cose diverse, ognuno convinto di chiacchierare di argomenti più interessanti anche se magari gli uomini stanno parlando di cose totalmente superficiali. Insomma, questo isolarsi in delle bolle è qualcosa che accade anche da adulti, ma di sicuro le persone giovani lo fanno di più e mi piace il fatto che creino un loro mondo personale in cui vivere. Spesso poi i mondi in cui si immergono i bambini sono totalmente di fantasia. Lo vedo per esempio in mia figlia: non vive tanto nella realtà, ha molta più voglia di “far finta”, di immaginare di essere qualcun altro. È tutto un passare da un universo all’altro: “ora io non sono più io ma sono un’altra cosa”, e mi affascina molto.
Lei è qui anche in occasione dell’inaugurazione della mostra che Fondazione Prada presenta domani in collaborazione con Universal Picture: un’esperienza immersiva che conduce il pubblico all’interno dell’universo di Asteroid City, fra oggetti di scena, costumi, scenografie originali. Il rapporto con Fondazione Prada è ormai di lungo corso. Com’è nato?
È cominciato diversi anni fa, quando Miuccia e Patrizio mi chiesero di fare una cosa per loro al Met Museum di New York. Mi proposero questa collaborazione ma in quel momento io non potevo e quindi saltò. Loro però furo veramente gentili e stimolanti e restammo in contatto. Così alcuni anni dopo lei mi chiese se volevo girare un cortometraggio per loro. Risposi che un’idea ce l’avevo ma non aveva niente a che fare con Prada. Di solito quando qualcuno ti chiede di fare qualcosa vuole che corrisponda il più possibile a ciò che ha in mente: magari non te lo dicono subito ma presto o tardi viene fuori. Loro invece mi hanno lasciato fare esattamente quello che volevo e anzi, furono anche estremamente collaborativi, mi aiutarono con i costumi, fu un’esperienza perfetta. Così quando mi chiesero di progettare il bar della fondazione che ora si chiama Bar Luce, accettai. Loro avevano in mente un vecchio bar milanese, molto classico, ma anche in quel caso mi lasciarono carta bianca. E non solo mi aiutarono a portare a termine il progetto, ma anche a migliorarlo. Per esempio il pavimento è molto più raffinato di come doveva essere all’inizio e tutto, tutto è ancora meglio di come l’avevo immaginato. E ora quando ci vado lo sento mio, mi sento a casa e loro mi ci fanno sentire a casa. Poi circa cinque anni fa con la mia compagna ho allestito una mostra a Vienna: Miuccia ce l’ha fatta portare alla Fondazione ma in una versione ancora più grade, una mostra immensa. Così ora ogni volta che ho un nuovo film lo porto a loro e lo proiettiamo nella loro sala cinematografica che è stata progettata da Rem Koolhaas, architetto interessantissimo. Insomma, quello di Fondazione è un mondo che amo e di cui mi piace far parte.
Ci sono attori che tornano sempre nei suoi film, come Clive Owen, Bill Murray, Edward Norton tra i vari. Di Jason Schwartzman si può dire addirittura che siate cresciuti insieme, da Rushmore nel 1998, in cui aveva appena 17 anni, a ora. Com’è accaduto?
Non è qualcosa che abbia scelto deliberatamente. È accaduto spontaneamente. Ci sono attori con cui si lavora benissimo ma che poi non si rivedono mai più. Per esempio ho lavorato con Gene Hackman nei Tenenbaum e non l’ho mai più rivisto, pur avendolo amato e avendo amato averlo nel film. Con Jason invece è stato automatico restare in contatto. Quando diventi amico di qualcuno che è uno dei tuoi attori preferiti poi è ovvio volerci lavorare di nuovo insieme nel prossimo film. È andata così, in modo assolutamente naturale. Diciamo che sono fortunato ad aver lavorato coi miei attori preferiti.
Facciamo un passo indietro, a Grand Budapest Hotel. È in parte tratto da e ispirato a Stefan Zweig, e verrebbe da chiedersi quanto parli anche dell’Europa – o del mondo – di oggi.
Grand Budapest Hotel è ispirato alla Storia ma lavorando sulla Storia si lavora anche sul futuro. Ci sono cicli che si ripetono e si ripetono: il sistema del mondo funziona su motori a ripetizione. Quindi se si trae ispirazione da fatti reali o anche solo da un momento storico particolare, è inevitabile che alcuni aspetti abbiano un’eco nel presente.
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