Barbara Petronio, romana, 49 anni, è la prima showrunner d’Italia. Sceneggiatrice ma soprattutto firma responsabile a capo del progetto: i suoi omologhi, negli Stati Uniti, sono in prima fila nello sciopero degli sceneggiatori. Ma in Italia “far riconoscere il ruolo dello showrunner è sempre stata la mia battaglia solitaria”. Showrunner della serie in uscita Uonderbois per Disney+, autrice di Romanzo Criminale, Suburra e Diavoli, produttrice esecutiva (la sua società è la Bullet Point) e sceneggiatrice anche al cinema per Stefano Sollima (ACAB) e Edoardo De Angelis (Indivisibili), per Petronio il problema degli sceneggiatori italiani è, soprattutto, la qualità. Che troppo spesso, nelle nostre serie, manca.
Lo sciopero degli sceneggiatori USA e il disagio degli autori italiani: cosa avete in comune?
La loro battaglia si fonda sulla salvaguardia della qualità e del talento dello scrittore, che deve essere remunerato. E su questo siamo tutti d’accordo.
Differenze?
Il sistema produttivo italiano è molto diverso da quello statunitense. Le rivendicazioni degli italiani sono anni luce indietro: mentre noi dobbiamo ancora vedere riconosciuto il nostro ruolo nella creazione di un prodotto, gli americani fanno una battaglia per riavere indietro un diritto già acquisito, e disconosciuto negli ultimi anni dalle piattaforme.
In che senso siamo indietro?
Prendiamo le cosiddette “writers room”, le stanze in cui si riuniscono gli sceneggiatori per scrivere una serie, quelle che hanno dato vita a tutti gli show di maggior successo da Breaking Bad in poi. In America si lotta perché le writers room sono state ridotte nel numero di personale: da venti scrittori sono rimasti in tre, pagati soltanto quando e se l’opera viene prodotta. Da noi siamo ancora alle basi: se chiedi una writers room di persone che ti aiutino a sviluppare creativamente e con competenza un progetto, la risposta è sempre no.
Ma perché le serie italiane non “sfondano” sulle piattaforme?
Culturalmente abbiamo un’impostazione infantile. Da italiani, tendiamo a trovare una figura di capo-progetto che risolva i problemi, di solito il regista. Le serie americane invece adottano un modello produttivo gerarchico, ma oliato ed efficace: la mente che concepisce il progetto viene messa a capo della struttura, lo showrunner appunto, e gli vengono attribuiti oneri e onori in egual misura. Il che significa che se lo showrunner sbaglia la serie, non viene più richiamato. È la meritocrazia.
E in Italia?
Da noi c’è una deresponsabilizzazione collettiva. La fase risolutiva dei problemi avviene sul set, e si vede. Spesso il regista, non avendo seguito lo sviluppo narrativo del racconto, si perde i pezzi e fa scelte non coerenti. La qualità dei prodotti ne risente.
L’intelligenza artificiale la spaventa?
Le IA le guardo con preoccupazione. Da una parte sono una realtà che bisogna imparare a gestire. Dall’altra sono pericolosissime per tutti i lavori di intelletto. Ho fatto una prova: in 10 minuti con ChatGPT ho prodotto un soggetto di serie presentabile a Netflix, Amazon, Rai o Sky.
Che soggetto era?
Un prete e una suora che si sposano: era solo una prova, volevo vedere cosa accadeva. Chiaramente l’IA fa prodotti semplici, terra terra. Ci ho interagito, le ho dato delle indicazioni, ma il fatto che sia riuscita a ottenere un risultato decente è un problema. Che esploderà, a occhio, non fra qualche anno ma fra qualche mese. Le IA sono già in grado di curare la regia, sostituirsi agli attori e al doppiaggio. Questo sciopero è uno spartiacque per capire se riusciremo a preservare un certo livello di umanità a fronte della comparsa delle macchine.
Gli italiani dovrebbero scioperare?
Avremmo dovuto farlo 30 anni fa, creare un’unione sindacale. Dovremmo cominciare a far sentire la nostra voce di creatori, anche se è tardi. Qualora i colleghi decidessero per uno sciopero, non saprei da cosa cominciare. Sa cosa? Dovremmo scioperare semplicemente perché siamo scrittori. Purtroppo.
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