Bisogna immaginarselo, il maestro Fellini, seduto su una seggiola in mezzo all’immenso Teatro 5 di Cinecittà, che si massaggia il mento mentre passa in rassegna le scollature delle comparse che gli hanno appena presentato. “Davvero non c’era niente di più grande?”, dirà con un lungo sospiro, deluso dall’offerta (spoiler: il problema lo risolverà, eccome). Roba di un’altra epoca, un altro cinema, altri registi, altri costumi, altra morale (chissà). Testimone diretto di quei tempi, e della scenetta con Fellini, è il palermitano Michele Calì, 67 anni, produttore indipendente da poco al cinema con InFiniti di Cristian de Mattheis (nel cast Francesca Loy, Federico Le Pera, Gabriele Rossi, Michela Persico e Ignazio Moser).
Un curriculum, il suo, fatto di tanta gavetta su alcuni dei set più importanti di quell’epoca là: la tv popolarissima de La Piovra, la commedia amatissima di Non ci resta che piangere, il cinema internazionale de Il padrino. E poi il Ginger e Fred di Fellini (“A Fellini gli trovavo le cose strane”), Miranda di Tinto Brass e tanto varietà per Rai2. Fondatore della A.C. Production, con cui ha prodotto sette film (Il Cielo può attendere, I giorni perduti, Prima della felicità, Un angelo all’Inferno, Infernet e Un amore così grande), se gli si chiede cosa significhi fare il produttore indipendente oggi, Calì non si fa problemi ad esprimere un’opinione, per così dire, schietta. Tipo: “Un disastro. Fare il produttore indipendente in Italia è un disastro. Raccomandati, soldi pubblici sempre agli stessi, il cinema sta morendo”.
Addirittura un disastro?
Ho 40 anni di cinema sulle spalle e posso permettermi di dirlo. Oggi chi viene aiutato dal Ministero sono i soliti noti e i raccomandati. Basta che arrivi uno con un progetto da otto, dieci milioni, e quelli gli aprono i cordoni della borsa. Ma io ho visto film costati una marea che non hanno reso nulla, e film da 800.000 euro che hanno fatto il botto. Non è automatico.
Il suo film, InFiniti, quanto è costato?
Intorno al milione. E i contributi selettivi (assegnati dal Ministero, ndr) non me li hanno dati. Assurdo che un film come questo, che sotto il profilo culturale ha molto da dire, girato a Recanati, nei luoghi leopardiani, col sostegno del sindaco della città, non sia stato nemmeno considerato. Ho mandato tutta la documentazione a Roma. Sa cosa? Per me non l’hanno nemmeno guardata.
Invece il pubblico il suo film l’ha guardato?
Sono soddisfatto, ma non ho i numeri precisi. È rimasto una settimana in sala. Sa, a meno che non sia un film Marvel o un gigante in grado di giocarsela, non c’è storia. Il cinema è destinato a morire. Gli dò al massimo due, tre anni. È un sistema vecchio e obsoleto. La gente guarda Netflix. A casa. Il mio film ha fatto il suo ciclo nelle sale di Uci Cinemas, adesso sono in trattativa con Rai e Mediaset. Un amore cosi grande, che mi era costato un milione 200.000, su Canale5 ha fatto 5 milioni e 400.000 di audience. Il futuro è questo: piattaforma o tv.
Anche la tv generalista non se la passa bene. Se li ricorda, i numeri che faceva La piovra?
Sì, ma quella tv là funzionava perché non c’era concorrenza. Un’altra epoca, proprio. Mi ricordo che Michele Placido chiese alla produzione di farsi ammazzare perché era stanco di sentirsi chiamare Cattani per strada (la puntata in cui muore il commissario Corrado Cattani fece 17 milioni di spettatori, ndr). Voleva tornare a fare l’attore, diceva.
Lei continuerà a fare film?
Io mi diverto. Riesco a tenermi a galla, il prossimo film lo farò sul femminicidio. Ma lo affronterò in modo molto duro, senza sconti. Nel cast ci sarà Francesca Loy, che è mia figlia. Mi piacerebbe coinvolgere Giancarlo Giannini. Siamo amici da trent’anni.
La commedia italiana, un tempo, funzionava. E adesso?
Adesso non ci si diverte più. Io ho debuttato sul set con Non ci resta che piangere, si rideva così tanto che diventò un problema. Un giorno dovevamo girare la prima scena in cui Troisi e Benigni indossano i vestiti dell’epoca del Savonarola, ma Troisi si rifiutava di uscire dal camerino conciato così. Non riuscivano a girare perché lui e Roberto scoppiavano a ridere ogni volta. Ripetemmo il ciak venti, venticinque volte. Alla fine il direttore della fotografia, Giuseppe Rotunno, mandò tutti a quel paese e se ne andò dal set. Il montatore è impazzito, su quel film: se guardate la scena in cui quei due sono davanti al pozzo, vedrete in un fotogramma Troisi che abbozza un sorriso. Il montatore ha dovuto tagliare in quel punto perché non aveva nemmeno una scena buona: ridevano in tutte.
Le manca quel cinema?
Manca a tutti. Gli attori non sono più all’altezza e la fantasia è stata uccisa dagli effetti speciali. Siamo ripetitivi, non ci sono piu idee. Una cosa come la supercazzola (il neologismo inventato per Amici miei di Mario Monicelli, ndr), chi se la inventa più?
Cosa ricorda di Fellini?
Lavoravo su Ginger e Fred. Ero l’addetto alle cose strane. Gianni Arduini, l’aiuto regista, mi chiese di trovare una donna prosperosa che serviva per una scena. Ne vidi così tante che alla fine mi venne la nausea. A un certo punto ne trovai una che mi sembrava adatta. La portai al Teatro 5. Lei mostrò il seno a Fellini, lui la guardò e disse: “Vorrei qualcosa di più”. A quel punto, vincendo le resistenze di Arduini, mi intromisi: “Maestro, ho visto tutte le tette di Roma, o prende questa o taglia la scena”.
E lui?
Ci pensò su: “Vabbè, mi terrò questa”. Ed è rimasta nel film: è la signora col balconcino nero. Un’altra volta Fellini mi chiese di trovargli dei vecchi all’ospizio.
La prego.
Li cercai ovunque, ma niente. Dopo tutta una giornata a vuoto, finalmente me li diede una suora. Trecentomila lire di mazzetta per dieci vecchi. Le dissi: “Sorella glieli riporto in serata, non si preoccupi”. Sa che mi rispose? “Se li può pure tenere”.
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