C’era una volta il nome dell’autore, e c’è ancora. Era garanzia di qualità, e lo è ancora (a volte, non sempre: perché non tutte le ciambelle escono cono il buco, e così via). Era un brand, e lo è ancora. Quando leggiamo un certo nome, sappiamo – più o meno – che cosa aspettarci. E va bene così. Ma nel frattempo, mentre i nomi degli autori riempivano le locandine, erano al centro di dibattiti e di confronti, il mondo è cambiato. Soprattutto, è cambiato il cinema ed è cambiato il pubblico. Che oggi, in sala, ci va, ma ci va poco.
Si mette in fila quando c’è veramente qualcosa che vuole vedere. E la grande promessa del nome dell’autore non basta più (Fabio Ferzetti ne parlava qui su THR Roma, ndr). Oggi la qualità è una cosa fluida, dinamica, inafferrabile. Basta categorie, basta etichette. La qualità parte – anche, non solo – dalla scrittura. Lo sappiamo noi, che facciamo ancora fatica a riconoscere l’importanza di ruoli separati, specifici, professionalmente riconosciuti; e lo sanno gli americani, i francesi, gli inglesi e i tedeschi.
Oggi si produce tanto, tantissimo. Forse troppo. E un autore, un Grande Autore, non può, anche volendo, fare tutto. I suoi film, o le sue serie, hanno bisogno di sostegno. Di aiuto. Di scrittori. E dunque: diamo a Cesare quel che è di Cesare. Al nome dell’autore, si sono affiancati i nomi degli scrittori. Che non vogliono rubare né spazio né visibilità – non hanno avuto nessuna di queste due cose per molto, molto tempo, e continuano a faticare per averle: figuriamoci se vogliono rubarle a qualcun altro. Ma che vogliono essere visti. Proprio come i Na’vi dell’Avatar di James Cameron: io ti vedo. Nel senso che ti riconosco, che accetto la tua presenza e che ti rispetto.
Un sistema in mutazione
Il sistema intero si è trasformato. Diamo un’occhiata al botteghino, ai suoi risultati; uniamo all’esercizio intellettuale-critico l’esercizio matematico. Non ci sono più molti Grandi Autori indipendenti (resistono Manuli e Capuano, sì: ma guardiamo che cosa deve fare quest’ultimo per farsi produrre un film, nonostante i tour, i saluti, nonostante i mille incontri dopo È stata la mano di Dio). Abbiamo fenomeni come Luca Guadagnino e Stefano Sollima, ma li citiamo solo ogni tanto, a ogni morte di papa. Non abbiamo memoria del presente.
Se c’è un problema, e se di problema vogliamo parlare, è la nostra incapacità, la nostra miopia, nel riconoscere la qualità. E nel valorizzarla. Oggi ciò che fa la differenza tra il successo o l’insuccesso di un film è il passaparola. Anche con Nanni Moretti, anche con Marco Bellocchio. Quello zoccolo duro che una volta affollava le sale, che le viveva con un altro animo e un’altra frenesia, è in via d’estinzione. E non è un’analisi azzardata: è la verità. È il grande ciclo della vita (leggetelo pure con un tono gassmaniano, da Mufasa de Il Re Leone).
Il pubblico nuovo ha bisogno di altre cose. Ha bisogno di una comunicazione più convincente, per esempio (e questa, ahinoi, non ha niente a che fare con il nome dell’autore) e ha bisogno di buone storie (e pure queste, sì, vanno al di là del “nome dell’autore”). Oggi chi scrive ha la stessa importanza di chi dirige. Anzi, parlando con gli attori e anche con certi registi, in molti ripetono che “se non c’è una buona sceneggiatura, non c’è niente: è quello il punto di partenza”.
L’intera filiera
Ovviamente ci sono delle eccezioni: chi dice di no. Ma se si parla di eccezioni, se parliamo di Paolo Sorrentino, regista-scrittore, e di Matteo Garrone, non possiamo parlare dell’intera industria. Le eccezioni si contano sulle dita di una mano, talvolta su quelle di due mani: è nella loro natura. Non possono sostenere l’intera filiera (quanti film escono ogni settimana? Umanamente, è impossibile girarne così tanti). Ed è qui, ecco, che entra in gioco il cambiamento.
Facciamo qualche nome: Nicola Guaglianone, che ha scritto – tra gli altri – Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti; Ludovica Rampoldi, Davide Serino e Stefano Bises, che hanno firmato, con Bellocchio, Esterno Notte; Francesca Manieri, che recentemente ha firmato Supersex di Netflix; Stefano Sardo, che ha fatto anche il suo esordio alla regia; Maddalena Ravagli e Leonardo Fasoli, che hanno firmato Gomorra – La serie; Francesco Piccolo, che ultimamente ha scritto – co-scritto, pardon – Siccità di Paolo Virzì, La storia di Francesca Archibugi, e anche Il Colibrì; ma anche Laura Colella, Isabella Aguilar, Lisa Nur Sultan (che ha lavorato sia a Sulla mia pelle che a Call my agent: se non è talento questo); Alice Urciuolo, divisa tra SKAM e Prisma; il collettivo GRAMS*. E così via.
Esempi, solo esempi
Insomma, i nomi ci sono. Ci sono sempre stati. E continueranno a esserci. Ora pro nobis. I grandi autori vanno valorizzati esattamente come tutti gli altri, non solo – e unicamente – per il loro nome. Dov’è, in questo, il ruolo della critica? Anche perché ci sono da considerare i nuovi autori. Che a volte sono registi, a volte partecipano alla scrittura del loro film e della loro serie. Abbiamo citato, prima, Mainetti. Ma vanno menzionati pure Matteo Rovere, regista-produttore-scrittore; Sydney Sibilia, Roberto De Paolis, i fratelli D’Innocenzo, Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana, Francesca Mazzoleni, Giulia Steigerwalt, Susanna Nicchiarelli, Paolo Strippoli e i suoi horror, Pilar Fogliati, Ludovico Bessegato, eccetera eccetera. (Queste due liste sono esempi, solo esempi).
Non c’è una caccia al “nome dell’autore”.
Nessuno vuole isolare o nascondere il talento travolgente di quelli capaci di, citiamo, “far ballare le loro sceneggiature”. Dobbiamo però imparare a cercare e a guardarci attorno. E a sostenere il futuro, senza volerci rifugiare a tutti i costi nel passato. La nostalgia non fa male, no: ma può essere pericolosa. Proprio come i sogni a occhi aperti. Specialmente in questo Nuovo Cinema, in questa Nuova Industria, dove grande e piccolo schermo si cercano e s’abbracciano, convivono e si sostengono a vicenda.
C’era una volta il Nome dell’Autore, e c’è ancora. Oggi, però, insieme a lui (o a lei), ci sono pure lo Sceneggiatore, il Giovane Autore e il Bravo Regista.
Tutti vanno pagati e tutti vanno rispettati. Sotto un’unica, grande regola: viva la qualità. Che no, non ha rotto il cazzo.
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