Per chiunque ami il cinema, il comunicato con cui è stata resa ufficiale la chiusura di uno di luoghi di proiezione cinematografica storici della penisola, il cinema multisala Odeon, comunicato persino empatico per una società per azioni (ci sono parole come “progetto di riqualificazione” che tradotto vuol dire “faremo boutique e supermercati, ma belli eh” o “nel rispetto dei vincoli architettonici e dei caratteristici elementi art-déco” o “The Space non esclude di tornare a gestire un cinema nella stessa location anche se con una conformazione diversa […], un nuovo cinema multisala al piano interrato”),è una pugnalata.
E quello che era stato anticipato allora, purtroppo si compie: il 31 luglio 2023, alle 22.45, partirà l’ultimo spettacolo del multisala Odeon. Sarà, ironia della sorte, il film che ha battuto ogni record di incassi a salutare una sala storica non solo di Milano, ma dell’intero paese. Barbie, di Greta Gerwig, i cui ultimi fotogrammi arriveranno a 1° agosto già iniziato, inizierà la diciassettesima delle proiezioni quotidiane che si tengono solo in quella multisala. Per l’ultima volta.
Ora è ufficiale ed è difficile credere che quegli schermi a due passi da Duomo non mostreranno più storie, immagini, emozioni in un luogo che per la sua bellezza, centralità, la sua suggestiva atmosfera era qualcosa di più di una sala cinematografica, in una città (guardate, in modi diversi, cosa fanno per quest’arte realtà come il cinema Mexico, altra sala in stile art déco, o l’Anteo, e uomini come Antonio Scancassani o Lionello Cerri) che dal cinema ha ricevuto poco, essendo la nostra industria cinematografica, e siamo generosi a definirla tale, romanocentrica, ma ha dato tanto, cercando di proteggerlo e diffonderlo come poche altre metropoli.
Ecco se l’Odeon, che ha ospitato anche rassegne importanti come il Milano Film Festival, che ha voluto tra i primi e poi difeso i classici del neorealismo, i cult di Sergio Leone e le novità della New Hollywood quando qui da noi ancora ci chiedevamo che rivoluzione fosse, se un cinema così chiude, sparisce, anzi diventa altro perdendo pure la sua identità che nella migliore delle ipotesi verrà relegata in cantina, come tutte le eredità fastidiose ed ingombranti – pardon nel “piano interrato” -, allora un ragionamento sul futuro della sala è improcrastinabile.
Ed è inutile e velleitario riproporre il dibattito alla Umberto Eco tra apocalittici e integrati, dividersi ideologicamente tra chi con aristocratico e snobistico pessimismo invoca la fine del mondo e quindi del cinema – annunciata da decenni con cadenza rituale – e chi, invece, sorride al futuro, alle piattaforma, alla televisizzazione del cinema, nelle nostre comode case.
Si può pensare, invece, all’evoluzione necessaria per non perdere un’esperienza unica, che è stata (è e sarà sempre) necessaria all’educazione sentimentale delle giovani generazioni, che mantiene una sua valenza qualitativa ma anche quantitativa – pensate all’esperienza di Ennio, che riempiva i cinema anche quando già programmato su piattaforma, ai Marvel movies, ma anche al cinema d’autore, da È stata la mano di Dio a Le otto montagne – e che nei festival, ad esempio, negli ultimi anni in controtendenza numericamente rispetto alla desertificazione delle sale, ha il suo trionfo.
Cos’è un’esperienza cinematografica oggi?
E forse dobbiamo partire proprio da qui: com’è possibile che un’esperienza fondamentalmente anacronistica come quella festivaliera sia ancora così potente ed efficace, attiri ancora, quando di valore e supportata da aiuti privati e pubblici, pubblico, interesse, vitalità culturale e intellettuale? Perché, avendo noi ormai device di ogni tipo che offrono, quale più quale meno, esperienze audiovisive di buon livello casalinghe, usciamo per partecipare a un evento culturale incentrato su proiezioni e incontri con artisti? La risposta più banale ma centrata è: l’unicità di quell’evento. A un festival fatto bene gli spettatori sanno che assisteranno a qualcosa di nuovo, unico, non replicabile in un’altra serata omologa. Quell’incontro, spesso quel film selezionato da volenterosi e malpagati addetti ai lavori che l’hanno scovato in altri continenti dove le distribuzioni neanche guardano, sarà possibile vederlo e viverlo solo in quel contesto. E poi, ogni giorno quella realtà cambia, viene vissuta in un contesto urbano che nelle migliori delle occasioni si adatta, si modella sulla rassegna e la ospita diventandone parte, come comunità e luogo.
Una delle intuizioni, se ci pensiamo, semplificando – ma la volontà di queste parole è anche suscitare un dibattito di cui questo editoriale non vuole essere analisi onnicomprensiva ma invece il primo mattone di un ragionamento collettivo – dell’industria musicale o per rimanere nel cinema, proprio della multisala Anteo.
Prima di parlarne, però, due premesse. Una, leggete tutti “Il cinema, l’immortale” di Daniele Vicari edito da Einaudi. Ci sono cifre, analisi, riferimenti per capire che viviamo in uno stato di totale salute del settore, che passa per la crisi di alcuni dei suoi meccanismi a favore di altri. Ma non si è mai prodotto tanto cinema e in tanti luoghi diversi come in questo momento. Solo gli algoritmi, volutamente, non se ne accorgono e non ce lo mostrano.
La storia del cinema Odeon
La seconda è proprio valutare la storia del cinema Odeon. Già, perché non parliamo di un luogo che ha visto solo periodi floridi per poi crollare ora, sotto il peso della modernità. No: negli anni ’30, agli albori della sua vita commerciale (fu fondato nel 1929, ma l’ex centrale termoelettrica ospitava spettacoli già agli inizi degli anni ’20) gli incassi cinematografici crollarono e usò parte dei locali per fare music hall. Nel dopoguerra, altra crisi: ospitò i concerti della Scala bombardata, e altri eventi musicali. E poi ancora arriva la tv e si dota di un teleproiettore avveniristico che possa mandare in onda in sala anche un segnale in diretta. Diventa poi multisala quando il concetto era nebuloso anche nella mente del più ambizioso dei tycoon e alla fine degli anni ’80 finisce persino nelle mani di Berlusconi. Non contento, passa anche per un incendio.
Premesse apparentemente lontane, è vero, ma che ci dicono che la strada non è abbandonare le sale, ma renderle luoghi in cui, come i festival o i live musicali, si vivano esperienze uniche e irripetibili. Come può accadere? Immaginando, ad esempio, il mercato del cinema d’autore e dei supporti altri rispetto alla sala, come quello del vinile attualmente, sorprendentemente concorrenziale perché il futuro si porta con sé la nostalgia del passato, che oltre a essere il segno della fragilità di generazioni ormai post ideologiche, è anche una redditizia nicchia del capitalismo.
Rassegniamoci al pensiero che l’esperienza un tempo di massa, sia diventata invece, per l’85% dei possibili eventi, d’élite. Non tutti i concerti di tutti gli artisti finisco al Forum d’Assago, a San Siro, al Palaeur o all’Olimpico. Ci sono i club, i locali, realtà intermedie (a Roma il Monk o l’Atlantide o Largo Venue per citarne alcuni alla rinfusa). Perché dobbiamo invece immaginare per film diversissimi per budget, capacità di intrattenimento e di attrazione del pubblico, ambizioni artistiche lo stesso identico luogo? E perché soprattutto pensare sempre e comunque a una distribuzione orizzontale come l’unica desiderabile e non immaginarne una verticale? A cosa ci servono 300 schermi occupati militarmente e da abbandonare dopo uno o due fine settimana? Perché non pensare a 300 date in giro per l’Italia, singoli eventi irripetibili per ogni luogo, con cast, dibattiti, idee, performance a far da contorno?
Ovviamente, soprattutto nelle metropoli, servirebbero strutture adatte. Ecco, potremmo rassegnarci all’idea che gli schermi siano tanti (come, ahinoi, le edicole: un ragionamento simile andrebbe fatto anche per il mercato dell’informazione cartacea) e che potremmo ridurli, ma accrescendo, per qualità e quantità, strutture multidisciplinari. Come ad esempio l’Anteo – non è l’unica, intendiamoci, ce ne sono tante in giro – che ospita festival, mostre, che d’estate ha uno spazio esterno che diventa luogo di incontro di arti e artisti, che ha una programmazione ragionata e non vittima dei ricatti delle major o di quello che pensano sia il pubblico. L’Anteo, poi, dentro ha due ristoranti, una libreria, locali che permettono agli spettatori di non sentirsi clienti da spennare – soprattutto col comfort trash food che fa male alla salute quanto all’audio delle proiezioni – ma come persone che partecipano a un’esperienza complessiva e duratura. Un luogo dove rimanere per esperienze alte e piacevoli, e non dove arrivare e poi fuggire in cerca di un posto per la cena o in cui non poter proseguire la serata. Gli americani parlerebbero (solo) di Premium Large Format, di costruire o adattare sale così da ospitare al meglio le esperienze blockbuster, noi suggeriamo anche quello, ovvero portare in un unico luogo, in un unico spazio non solo una multisala, ma una multiesperienza, in cui il cinema sia il centro di gravità permanente.
Immaginate quanto potrebbe essere desiderabile un luogo di questo tipo a due passi da Piazza Duomo a Milano, così come è l’Odeon ad esempio. Ragioniamo su quanto davvero l’idea di una sacralità della sala cinematografica, mai reale fin dagli inizi della Settima Arte i luoghi di proiezione sono stati a uso ibrido, sta uccidendo la visione collettiva dal vivo quotidiana. Pensiamoci. Oppure luddisticamente prendiamocela con le piattaforme. Sabotiamole. Ma ricordando bene come finì Ned Ludd. Se neanche Federico Fellini, con un claim niente male come “non si interrompe un’emozione” è riuscito a impedire che la pubblicità in tv violentassero le opere d’arte cinematografiche. davvero noi pensiamo di poter mantenere lo status quo immaginando un’incredibile, improbabile, straordinaria inversione di tendenza?
Protestiamo come comunità di addetti ai lavori e di appassionati perché il cinema sopravviva come lo amiamo. Ma ricordiamo sempre ciò che disse l’ex sindaco di Cerveteri Alessio Pascucci quando chiuse il cinema della sua città (che lui, da sindaco, contribuì a far riaprire e qui si apre un altro dibattito: serve il pubblico per difendere i luoghi di cultura, perché non pensare al PNRR come trampolino per riqualificazione e difesa dei cinema?). Disse “se le persone che oggi sono qui a protestare, se ognuna di loro avesse comprato un solo biglietto nell’ultimo anno alla cassa qui fuori, questa sala sarebbe ancora aperta”.
Che l’Odeon, come tutte le sale precedenti che hanno chiuso, e quelle che chiuderanno, non muoiano invano. Proviamo a cambiare le cose, e facciamolo in fretta.
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