Latondra Newton, responsabile della diversità della Disney, lascia l’azienda dopo sei anni di attività. Il motivo, come ha scritto il capo delle risorse umane Sonia Coleman, è che deve “dedicarsi ad altre attività”. Sui social qualcuno è convinto che sia stata licenziata dopo il disastro di Elemental, il nuovo film sull’immigrazione che ha messo a segno il peggior esordio al botteghino nella storia di casa Pixar. Qualcun altro, ottimista, dice che è andata via perché ha trovato un lavoro migliore. Un altro azzarda: non sarà che il Ceo Robert Iger, redivivo dopo la cacciata di Bob Chapek, si è reso conto che gli ultimi film sono in perdita perché la strategia di diversità e inclusione (DEI) è solo apparenza e poca sostanza? Potrebbe. Forse non per la consapevolezza della nobiltà dell’intento ma per mera economia.
E Iger è una sorta di mago del risparmio, tanto da aver capito dove e come tagliare per risollevare le sorti del colosso americano, con licenziamenti di massa – entro la fine dell’estate i dipendenti mandati via, che ora sono circa quattromila, arriveranno a quota settemila – e manovre per aggiustare un bilancio non dei più brillanti. Il tutto complicato anche dalle carte finanziarie che dovranno passare di mano, dopo che il 15 giugno la Cfo Christine McCarthy, che lavorava in Disney da più di vent’anni, ha annunciato le sue dimissioni, prendendo un congedo per motivi di salute.
Se può essere vero che “la gente non si stancherà mai della Disney”, come ha detto a THR Roma la direttrice creativa Jennifer Lee, forse è arrivato il momento di rispondere alla domanda che un tempo si faceva Walt Disney: “Perché dobbiamo crescere?”. Perché non ci sono alternative. Più che un business, la Disney è forse la fabbrica di cultura di maggior successo che il mondo abbia mai conosciuto. Quindi gli sconvolgimenti che oggi scuotono l’azienda, a cento anni dalla sua nascita, hanno una rilevanza che va ben oltre l’impero di Topolino.
Latondra Newton e la diversità in Disney
Latondra Newton era arrivata alla Disney nel febbraio 2017, dopo essersi occupata di inclusione in Toyota. Il suo mandato è andato di pari passo con gli sforzi crescenti e inarrestabili di Hollywood in direzione della diversità e l’inclusione. Soprattutto nell’ambito della rappresentazione, dentro e fuori lo schermo.
Dopo l’omicidio di George Floyd nel maggio 2020, Newton firmò – insieme all’allora amministratore delegato Bob Chapek e a Bob Iger – una lettera per i dipendenti intitolata Resolve in a Time of Unrest in cui esprimeva l’impegno della Disney per “un vero cambiamento”.
Poco dopo l’azienda donò 5 milioni di dollari alla NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), una delle più influenti associazioni per i diritti civili degli Stati Uniti. La Disney inoltre lanciò la piattaforma Reimagine Tomorrow, per amplificare le voci sotto-rappresentate e tenere traccia degli aggiornamenti DEI.
Newton era al timone anche quando nel 2020 su Disney+ appariva il disclaimer sugli stereotipi prima della riproduzione di classici come Gli Aristogatti, Lilli e il Vagabondo, Dumbo, Peter Pan e il Libro della giungla: “Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture”. Disney dichiarava il suo intento: “Invece di rimuovere questo contenuto, vogliamo ammetterne l’impatto dannoso, trarne insegnamento e stimolare il dialogo per creare insieme un futuro più inclusivo”. La piattaforma aveva già deciso di non eliminare i film “scorretti” (come invece aveva fatto Hbo con Via col vento) e aveva inserito l’avviso.
Nel 2022, l’azienda ha destinato 140 milioni di dollari in beneficenza alle comunità sotto-rappresentate. Nonostante questo, le iniziative per la diversità sotto la guida di Newton sono state accompagnate da accese discussioni, tra chi ha apprezzato lo sforzo e chi lo ha reputato solo di facciata.
Gli sforzi per bilanciare inclusione e profitto
Newton va via in un momento in cui l’azienda sta lottando per bilanciare l’inclusione col profitto. Gli sforzi per un bilanciamento non hanno portato i loro frutti ma solo frustrazione da parte dei fan e pochi incassi.
Nel 2020 John Boyega di Star Wars accusava la Disney di aver usato il suo personaggio per rappresentare la comunità afroamericana solo di nome. “Quello che vorrei dire alla Disney è di non far emergere un personaggio nero, commercializzarlo, e poi metterlo da parte”, dichiarava.
Negli ultimi anni tuttavia la Disney ha fatto passi in avanti, come dimostrato dall’ascesa di film incentrati sui personaggi sotto-rappresentati. Ad esempio, Encanto è un film che racconta le vicende di una famiglia matriarcale colombiana, ma per molti si limitava a mettere in scena una prospettiva della Colombia attraverso gli occhi degli americani. Il film del 2022 Turning Red ha messo in luce la cultura cinese ed è stato il primo film Pixar a essere diretto esclusivamente da una donna, Domee Shi. Secondo i critici, tuttavia, fornisce un ritratto mono-dimensionale della comunità cinese. Da ultimo, Elemental si è cimentato nella rappresentazione del primo personaggio non binario in un film Disney: peccato che il personaggio non sia umano. Il film ha anche fallito nel suo primo fine settimana negli Stati Uniti, incassando solo 29,5 milioni di dollari al botteghino.
A detta delle voci critiche, in questi casi la diversità, sebbene benefica, sembra ancora una forma di “capitalismo razziale”: solo un modo per fare più soldi.
Lo scontro con De Santis
Non bastasse, Disney deve affrontare anche dei nemici ben più aggressivi: quelli che di strategie DEI non ne vogliono sapere e che anzi fanno di tutto per denigrarle invocando che “il politicamente corretto sta distruggendo la creatività”.
La Disney cerca di tenere il passo. Quest’anno mostra i cimeli dei suoi cento anni con una mastodontica mostra itinerante fino al 2028. Sta investendo in contenuti originali più di qualsiasi altra azienda. Domina ancora il botteghino globale, con quattro dei dieci maggiori successi dello scorso anno, e ha più abbonamenti streaming di tutti. Essere oggi a capo della Disney però non è più come cento anni fa, quando il piccolo studio ha rivoluzionato Hollywood (e il mondo). Oggi Bob Iger deve affrontare, tra gli altri, Wall Street, la concorrenza delle altre piattaforme, il Partito comunista cinese, il governatore della Florida, aspirante candidato alla Casa Bianca.
E quest’ultima battaglia è forse quella che tocca più da vicino gli interessi di casa Disney. L’anno scorso il governatore della Florida, il repubblicano Ron DeSantis, ha attaccato la Disney per aver criticato la sua legislazione anti-LGBTQ. Disney gli ha fatto causa. Certo, c’è da chiedersi perché una delle più grandi aziende americane, in particolare una che non ha una lunga storia di prese di posizione su questioni sociali, dovrebbe andare al tappeto per i diritti LGBTQ. E forse la risposta è quel “perché dobbiamo crescere” senza il punto interrogativo. E perché finora questa rissa non ha inciso sui profitti. Anzi, è stata un riconoscimento per i molti dipendenti e consumatori LGBTQ che hanno contribuito al successo della Disney in questi cento anni.
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