Un lungo tavolo in legno e una ciotola piena di gianduiotti a dare il benvenuto. Alla parete un quadro che riprende I nottambuli di Edward Hopper ma con Batman, Joker e Catwoman al posto dei personaggi originali. Le foto autografate di Monica Bellucci e Kevin Spacey del quale in un angolo spunta, insieme a quelle di Pablo Larraín e David Yates, la riproduzione del premio Stella della Mole assegnata all’attore in occasione della sua masterclass. E poi ancora: i tragic toys di Tim Burton, libri, manifesti, disegni e, sotto una teca di vetro, una versione della Mole in legno realizzata nel 1980 da Gaetano Sciacchitano. L’ufficio di Domenico De Gaetano, direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino, racconta una storia.
Quella del suo mandato, iniziato nel 2019, che ha coinciso con una rivoluzione nel modo di pensare, comunicare e immaginare “l’ottavo museo più visitato in Italia”. Settecentomila persone che, ogni anno, varcano l’ingresso del monumento simbolo della città piemontese per ritrovarsi catapultati in un mondo magico che in questi giorni ospita una mostra dedicata al regista di Edward mani di forbici. “Un museo archeologico e, al tempo stesso, contemporaneo” come racconta a THR Roma De Gaetano che nel futuro prossimo ha in programma un focus sulla serialità e di aprire al pubblico una sezione ancora inedita dell’archivio. Mentre sogna di portare Christopher Nolan alla Mole. “A lui pagherei viaggio aereo da Los Angeles anche di tasca mia”.
In questi giorni in fila per entrare al Museo Nazionale del Cinema ci sono diverse famiglie con bambini e ragazzi.
Da quando sono diventato direttore uno degli obiettivi era proprio quello di portare i giovani a visitare il museo. Dato che il cinema non è una materia che si insegna a scuola, molti dei personaggi, degli attori, dei film o registi della storia del cinema che per i cinefili e gli appassionati sono conosciuti, per almeno un paio di generazioni non lo sono. Non hanno più il cinema come punto di riferimento. La cosa che fa più piacere in questo periodo, grazie alla mostra di Tim Burton, è andare all’interno della Mole e chiedere ai ragazzi come mai sono lì. E soprattutto chiedere alle famiglie se sono i genitori che hanno portato i figli o il contrario. Il più delle volte sono proprio gli adolescenti che li hanno spinti ad entrare al Museo del Cinema. Da questo punto di vista non c’è niente di meglio.
Quanto lavoro c’è dietro per portare registi come Damien Chazelle o Tim Burton alle masterclass? Quanto prima si mette in moto la macchina organizzativa?
Il lavoro è iniziato diversi anni fa, quando – appena arrivati – insieme al presidente Enzo Ghigo abbiamo avuto l’idea di dare un respiro internazionale al museo invitando grandi registi e attori. Lo abbiamo fatto sapendo che quello era un percorso che avremmo dovuto portare avanti in maniera sempre più importante. Abbiamo invitato Amos Gita, Julien Temple, Tim Roth. Quest’anno è venuto Kevin Spacey, l’attore hollywoodiano per eccellenza – per quanto in quel periodo ci fossero ancora delle turbolenze nella sua vita privata e professionale – che ha dato risalto alle masterclass a livello internazionale.
Sono arrivati giornalisti e agenzie da ovunque e siamo usciti su tutte le riviste e televisioni del mondo. Ma abbiamo invitato anche Ashgar Farhadi, regista iraniano premio Oscar, in un periodo in cui l’Iran finiva sui giornali per tutt’altro. Un modo per essere presenti rispetto a una problematica come quella della condizione delle donne allontanate dalla vita pubblica. L’idea è quella di invitare questi personaggi quando sono in Europa. Anche se per Tim Burton è stato molto più complicato.
Come mai?
Oltre alla masterclass volevamo anche portare la sua mostra alla Mole. E quindi, prima di tutto, dovevamo convincere la Tim Burton Production che nella circuitazione della mostra aveva eliminato il Museo del Cinema. Nella Mole c’è questa grande sala unica, l’aula del Tempio, e la sua mostra invece si sviluppa in stanze tradizionali. La prima cosa è stata quella di invitarli a venire a visitare il museo e spiegare loro l’idea che avevamo in mente. Ricostruire cioè lo studio di Tim Burton che è la base dell’esposizione – con la sua scrivania, le agendine, gli schizzi, le tempere, i pennarelli, le statuine, le riviste – come se si fosse appena alzato di lì e la Mole diventasse la materializzazione delle sue fantasticherie. Ci si poteva immergere ed entrare nel suo universo creativo destrutturando quello che è il percorso lineare di una mostra per ritrovarsi in una sorta di Wunderkammer di Burton.
La reazione?
Gli è piaciuto molto. L’architettura in questo senso, se da un lato può essere limitante, dall’altro favorisce degli allestimenti straordinari. E infatti Burton ha detto che dopo il MoMA di New York – dove nel 2009 c’è stata per la prima mostra – quello del Museo del Cinema è l’allestimento con maggior passione, dove si dispiega bene il suo immaginario. Tutti i musei del cinema che ci sono nel mondo – Amsterdam, Parigi, Los Angeles, Melbourne – sono in strutture molto contemporanee, ultratecnologiche, costruite da grandissimi architetti. La Mole Antonelliana invece è un edificio visionario dell’Ottocento. Da fuori non ti rendi conto di come può essere all’interno. Quando si entra si vive una sorta di stupore perché c’è l’unione incredibile tra la magia del cinema e la magia visionaria dell’architettura di Alessandro Antonelli che se fosse vissuto adesso sarebbe una sorta di archistar.
Ha un luogo preferito del museo che ogni tanto va a visitare?
Ce ne sono diversi. Quella che mi piace di più è la piccola sala dei cartoni animati. C’è Titti dentro la sua gabbietta, la sagoma di Willy il coiote che si è appena schiantato. Rispetto alle altre sale che possono essere un po’ più “adulte”, lì ti accorgi che la magia del cinema inizia davvero in tener età, quando sei piccolo e guardi quei cartoni animati straordinari.
In molti non sanno che il museo del cinema è stato fondato da una donna, Maria Adriana Prolo. Una mente all’avanguardia che collezionava cimeli cinematografici. Qualche anno fa le è stata dedicata una mostra fotografica. Ma avete pensato a uno spazio permanente?
Tutto il museo è suo. Le collezioni che esponiamo le appartengono all’80%. Alcuni costumi o sceneggiature, ogni lanterna magica, scatola ottica o fenachistoscopio. Tutto arriva da lei o o è stato acquisito secondo il suo spirito. Una donna del Novecento vitale, tenace, determinata, anticonformista. È sempre presente. Ha iniziato ad archiviare da poco prima della seconda guerra mondiale. Il cinema era nato a Torino ma si era persa quella sorta di eredità. Ha messo da parte oggetti, film in pellicola, fotografie, manifesti, cartoline – il marketing dell’epoca – fino alla sua morte nel 1991. Il museo è stato costruito grazie a lei.
Due anni fa abbiamo realizzato un video in cui vengono raccontate le storie sua e di Antonelli. Due linee parallele che nel 2000 si congiungono nel momento in cui è stato aperto il Museo del Cinema alla Mola Antonelliana. Il cinema ha trovato casa nella Mole e la Mole ha trovato un suo significato. Non va dimenticato che è stata inaugurata nel 1889, lo stesso anno della Tour Eiffel a Parigi. Due edifici, uno in ferro e l’altro in mattoni, diventati iconici per le rispettive città ma assolutamente inutili. Alla Mole, oltre ad essere sulla monetina da due centesimi e essere il simbolo di Torino, si è dato uno scopo. Alla Tour Eiffel tutto sommato ancora no (ride, ndr).
È vero che c’è una parte dell’archivio che non è ancora stata esposta?
Il Museo del Cinema ha circa due milioni di oggetti, tra manifesti, fotografie, sceneggiature, archivio cartaceo, film in pellicola, eccetera. La maggior parte dei nostri fondi è ancora tutta da catalogare, soprattutto per quanto riguarda i manifesti. Anche se abbiamo i lotti ben descritti, non sono ancora stati né catalogati né digitalizzati. Il nostro archivio era in un deposito in via Nizza. Quando siamo arrivati, per motivi di sicurezza, era chiuso sia al pubblico che ai dipendenti da circa cinque anni. All’inizio ci andavo soltanto io per fare delle ricognizioni e poi, dopo due anni di lavori, lo scorso settembre finalmente l’abbiamo riaperto anche ai dipendenti. Adesso ci piacerebbe, ogni due o tre mesi, aprirlo anche al pubblico.
La prima volta che è entrato com’è stato?
C’è un’infilata di armadi metallici. Alcuni sono chiusi a chiave, altri no. Ci sono delle tavolate dove sono distesi tutti i manifesti. È come essere in un film di Indiana Jones circondato da casse dal contenuto sconosciuto. La sensazione è un po’ quella. Quando apri un armadio non sai che cosa c’è dentro. Naturalmente i responsabili delle collezioni lo sanno benissimo, per cui di solito vado con loro. Mi dicono: “Vuoi vedere le pistole di Pulp Fiction?”. E allora aprono un armadio dove c’è una scatola al cui interno c’è un’altra scatola, poi una velina e via discorrendo. Dura circa un quarto d’ora “la svestizione” delle pistole (ride, ndr).
Un oggetto di scena de Lo Squalo che raffigura mezzo busto del mammifero protagonista del film di Steven Spielberg è stato prestato ad un museo francese. È una pratica comune?
Sono iter piuttosto lunghi perché ogni volta che prestiamo un nostro pezzo, anche solo un manifesto, ci sono pratiche di sovrintendenza complesse. Nel caso dello squalo la richiesta arrivava da oltre un anno. Mettiamola così: abbiamo accettato perché ci piace e diverte anche l’idea che uno squalo vada in giro per l’Europa. In questo caso al Musée national de la Marine di Parigi. La difficoltà è stata quella di dialogare con la ditta che doveva occuparsi del trasporto perché era messo in una posizione effettivamente non semplice. Hanno dovuto prendere una gru e spostarlo come fosse una piramide. Sono oggetti molto fragili, però ce l’abbiamo fatta. L’abbiamo anche documentato in un video, perché ci sembrava una cosa talmente strana che meritava una testimonianza.
Il Museo ha una zona dedicata alla virtual reality. Un edificio dell’Ottocento pieno di cimeli della nascita del cinema ma che guarda al futuro.
Non sappiamo se sarà il futuro il cinema. Da un lato considero il museo archeologico. Esponiamo oggetti che raccontano storie, dalla cinepresa dei Lumière ai costumi di Gangs of New York. Dall’altro d’arte contemporanea. Il cinema è un’arte che continua a evolversi nel tempo e la sua evoluzione è strettamente legata all’innovazione tecnologica. Quello che facciamo in questo senso è di documentare e musealizzare quello che i fermenti della contemporaneità portano e apportano al cinema.
La realtà virtuale 360, i videogiochi, il metaverso, la realtà aumentata, il videomapping sulla cupola della Mole. Dei linguaggi artistici autonomi e delle tecnologie che diventano tecniche e che influiranno sul linguaggio del cinema. Ci piace molto inglobare queste realtà all’interno del museo e renderle disponibili al grande pubblico. Lo abbiamo fatto per attirare i giovani. Ma abbiamo scoperto che tutti i visitatori vogliono provare quell’esperienza. Credo sia compito del museo proporre queste nuove tecnologie.
In questi anni il confine tra cinema e serie tv è andato sempre più intrecciandosi. Avete pensato di dedicare uno spazio anche alla serialità?
Sì. Tra l’altro a livello produttivo le film commission danno finanziamenti senza fare distinzione tra film di finzione e serie televisive . Quindi non capisco perché dobbiamo farlo noi che siamo un museo del cinema. Uno dei prossimi focus che faremo sarà una mostra per indagare il rapporto tra cinema e serie tv identificando quelle che secondo noi hanno fatto la storia invadendo la cultura pop e quindi l’immaginario collettivo.
Le sue preferite?
Non ho molto tempo per guardarle. Però mi piacciono le più fantasiose, quelle di pura finzione. Per esempio Game of Thrones me la sono vista tutta. Ho aspettato finisse e a quel punto mi sono preso non so quante settimane per guardare le stagioni una dietro l’altra (ride, ndr). Un’altra che ho amato molto è Squid Game. Mi ha sconvolto in modo positivo. E poi Stranger Things. La guardava mia figlia e volevo capire come mai ne fosse così affascinata. Sicuramente la musica degli anni Ottanta, che è quella che che ascoltavo io, mi ha aiutato ad entrare nella storia. Anche l’idea di creare un mondo sottosopra mi è parsa molto creativa. E poi naturalmente ho guardato Mercoledì di Tim Burton con un certo interesse (ride, ndr).
Quando si conclude il suo mandato?
Il prossimo anno, a ottobre.
E cosa spera?
(Ride, ndr). Mi piacerebbe ovviamente continuare ad essere direttore. Però è chiaro che dipende da altre persone che devono giudicare il mio operato. Penso che ognuno debba essere giudicato in base a quello che fa e che ha fatto. E quindi in base ai risultati che ho ottenuto.
Secondo lei perché quando è stato annunciato che Giulio Base sarà il prossimo direttore del Torino Film Festival qualcuno ha storto il naso?
Forse non si aspettavano che un regista facesse l’application per diventare direttore. C’erano diversi candidati che magari erano già in qualche comitato di selezione o avevano già lavorato in alcuni festival e quindi si sentivano in pole position per ricoprire il ruolo. Base è nato a Torino, è molto più cinefilo di me, ama il cinema e lo conosce bene. Ha tutte le caratteristiche per fare un ottimo festival. Sono molto contento che ci sia lui.
Da appassionato cinefilo, se dovesse consigliare un film da vedere quale sarebbe?
Forse Interstellar di Christopher Nolan. È sicuramente il regista che in questo momento mi appassiona di più. È un genio.
Abbiamo il nome del protagonista della prossima masterclass?
Mi piacerebbe. Mi dicono sia abbastanza inarrivabile. Però sì, lo inviterai domani. A lui pagherei viaggio aereo da Los Angeles anche di tasca mia (ride, ndr).
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