Che cos’è la libertà di espressione? Siamo proprio sicuri che la cultura italiana sia libera? Quanto influiscono il mercato, i social media, la cancel culture, la censura e l’autocensura? Giornalista e ricercatrice, Marta Rizzo ha posto questi e molti altri interrogativi a 28 esponenti dei più diversi campi in un libro che è quasi un giallo: Non c’è che dire – Libertà di espressione nella cultura italiana, in uscita il 19 giugno con La Lepre edizioni (260 pagine, 22 euro). A intervenire, scrittori come Edoardo Albinati, Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo, Dacia Maraini, Lidia Ravera, Walter Siti, Emanuele Trevi, registi come Pupi Avati, Liliana Cavani, Daniele Ciprì, Antonietta De Lillo, Giuliano Montaldo, Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Daniele Vicari, in più Marco Bertozzi, Dario Cecchi, Leonardo Clausi, Diego Cugia, Fabrizio Funtò, Patrizio Gonnella, Serafino Murri, Mauro Palma, Gianfranco Rinaldi, Alberto Rollo, Marco Ruotolo.
Anticipiamo una parte della conversazione con Fabio Ferzetti: “E la critica sta a guardare”.
Sento dire che la critica è in crisi da quando faccio questo mestiere, cioè da metà anni ’80. Nel frattempo la crisi c’è stata davvero perché sulla grande stampa, ovvero su ciò che ne resta, gli spazi si sono contratti in modo spaventoso e non solo per il cinema. Naturalmente il problema è più ampio e riguarda il giornalismo in generale, che la Rete ha costretto a reinventarsi sotto ogni profilo. Per la critica però il cambiamento è stato anche più radicale perché ha coinciso con un mutamento di orizzonte. Per decenni, in Italia e nel mondo, sui giornali come sui rotocalchi popolari o sulle riviste specializzate, la critica ha accompagnato il cinema nel suo farsi, costruendo un immenso racconto collettivo a più voci.
Tutti i possibili discorsi sul cinema, anche i più parziali e contraddittori, finivano per alimentare questo grande patchwork affollato di memorie, riflessioni, opinioni – talvolta allucinazioni, perché no? – che costituiva la grande epica del cinema. Un’epica eternamente in progress, magari tirata nelle direzioni più diverse, ma comunque capace di accompagnare con il suo ronzio il potere delle immagini in movimento, che è stato per tutto il Novecento un potere unico, insieme sociale e incantatorio. Oggi tutto questo non c’è più, o è andato affievolendosi, perché è mutato forse per sempre il quadro della comunicazione. Tutto tende a essere più veloce, esasperato e transitorio, tutto si brucia più in fretta, le opere come le opinioni. In altre parole non siamo più nell’epoca del Racconto bensì in quella del Commento. E la critica, in tutte le sue forme, più o meno spontaneamente si adegua. (…)
Dibattito selvaggio e giudizi lapidari
Basta vedere cosa succede nei vari luoghi in cui si continua a scrivere. Oltre che nelle poche rubriche superstiti e in alcune riviste benemerite, la critica militante, quella che si costruisce giorno per giorno, sopravvive, anzi prolifera in ambiti completamente nuovi, ma subisce l’estremizzazione dominante in rete. Se i social media favoriscono il dibattito selvaggio e i giudizi lapidari, su siti, blog e testate online dilaga invece una saggistica spesso fluviale ma di ispirazione molto diversa. A intervenire sono accademici, eruditi, cinefili, tuttologi, appassionati di questo o quel genere, di questa o quella area geografica, eccetera, in un indefinito moltiplicarsi di stili comunicativi, orientamenti, visioni del mondo e del cinema.
A cui vanno aggiunti, tendenza più recente, i podcast o gli youtuber che possono monologare per ore di un singolo film sapendo di rivolgersi a spettatori appassionati. Difficile determinare il peso di questa massa di interventi, ma una cosa si può senz’altro dire: non si è mai scritto e parlato tanto di cinema, eppure il grande pubblico non è mai stato meno informato. Intendo criticamente informato. Lo prova il box office, che resta l’indicatore più affidabile dei gusti cinematografici.
Anno dopo anno infatti abbiamo visto prodursi una sempre più spiccata polarizzazione degli incassi. Gli spettatori tendono cioè a concentrarsi su un numero sempre minore di prodotti di grande richiamo, con giganteschi budget promozionali a disposizione, mentre a un numero sempre maggiore di titoli toccano le briciole della torta. Nonché la consolazione, spesso illusoria, di poter circolare attraverso canali diversi dalla sala. Canali peraltro assai meno accessibili di quanto si creda, specie per un certo tipo di lavori, oltre che molto più difficili da monitorare. (…)
Come usa oggi, è tutto un po’ on demand. Prima la comunicazione era verticale, con i critici in alto, arroccati dietro il loro supposto sapere, e i lettori/spettatori in basso. Ora è orizzontale. Da simile a simile. Come in altri ambiti, dunque, il destinatario finale cerca la voce più affine alla propria. Finendo molto spesso per isolarsi. È il fenomeno delle “camere dell’eco”, che caratterizza in generale la comunicazione in Rete.
Offerta illimitata, scelte mirate
L’offerta di contenuti a carattere critico è virtualmente illimitata. Le scelte però sono di fatto molto mirate. Oltre che determinate da fattori eterogenei e non sempre trasparenti. Non pesano solo gusti, predisposizioni, cultura del singolo utente: sarà la piattaforma stessa, o il motore di ricerca, a suggerire all’utente i percorsi presumibilmente più adatti al suo profilo, o i più popolari. Gli algoritmi funzionano così, ma è difficile immaginare qualcosa di più lontano di un algoritmo dal discorso critico, che per definizione spiazza, riformula, verifica, interroga modelli e certezze. Nel bene e nel male insomma la voce del critico ha perso potere, aura, prestigio.
Così la critica che una volta si diceva militante ha finito per accomodarsi, più o meno di buon grado, ma spesso senza neanche rendersene conto, in una posizione di crescente marginalità, contentandosi di predicare ai convertiti. E più in generale rinunciando a esercitare il suo diritto/dovere interpretativo per limitarsi ad accompagnare, a sostenere, a illustrare l’opera. Come se il nostro ruolo si esaurisse nel promuovere questo o quell’autore, senza approfondire ciò che ogni film mette davvero in gioco. Ma soprattutto senza tener conto delle condizioni in cui quel film è stato fatto. Quasi che contasse solo il prodotto finito, e non sapessimo attraverso quali e quanti filtri passa un’opera cinematografica prima di prendere la sua forma definitiva.
In questo modo però i diversi tipi di “discorso”, l’anticipazione, la recensione, l’intervista eccetera, diventano solo tessere di una più generale strategia di marketing. Basta vedere il potere crescente e indiscusso degli uffici stampa, che ormai impongono tempi e modi d’approccio ai loro titoli con la sostanziale acquiescenza di quasi tutti noi.
Questione di marketing
Ma chi ha detto che il marketing è il metodo migliore per “vendere” un film? Il marketing, per definizione, conferma lo status quo, dunque funziona per controllare il mercato nel suo insieme, decidendo a priori quali spazi concedere a questo o a quel titolo, ovviamente a vantaggio dei soggetti più forti. Ma funziona malissimo quando il “prodotto” sfugge alle categorie preesistenti ridisegnando il gusto e le attese degli spettatori. E in questo caso la critica gioca, o forse giocava, un ruolo fondamentale. Quanti grandi film italiani degli anni 80, 90 e ancora dei primi anni Duemila, devono il loro successo anche al sostegno della critica?
Basti un esempio: L’amore molesto di Mario Martone, che nel 1995 incassò 5 miliardi di lire. Un risultato clamoroso per l’opera seconda di un regista di matrice teatrale, tratta dal romanzo di una scrittrice allora ignota, interpretata da attori certo non di richiamo e parlata in un napoletano così stretto da richiedere i sottotitoli. Non credo che oggi un fenomeno simile potrebbe riprodursi tanto facilmente. In sostanza il mercato è una macchina sempre più complessa ma sempre meno libera. E la critica per lo più sta a guardare, come se a questo stato di fatto non ci si potesse opporre nemmeno in termini di opinione. (…)
Facciamo un passo indietro. La critica è sempre stata importante per il cinema più esigente e continua ad esserlo. Le parole di chi analizza, interpreta o recensisce un film sono spesso il primo specchio in cui gli autori del film si guardano e verificano il loro lavoro. Com’è naturale quasi sempre si tratta di un dialogo sotterraneo, dalle conseguenze non necessariamente visibili. Ma capace di esercitare una sua influenza nel lungo periodo purché il ruolo, il peso, il disinteresse, l’onestà intellettuale del critico siano reali e riconosciuti.
Industria culturale in corsa
La storia del cinema è costellata di nomi il cui percorso è stato accompagnato, illuminato, talvolta anche contraddetto ma comunque stimolato dal dialogo con la critica. Una volta gli autori dialogavano in modo più o meno continuato e amichevole – beh, non sempre amichevole – con critici molto riconoscibili e riconosciuti. O con i direttori di festival e rassegne, perché fare critica può significare anche organizzare una monografia o un festival, come si cominciò a dire negli anni Settanta con l’Estate romana di Renato Nicolini e Enzo Ungari.
Anche se una cosa è rendere conto di un film in tempi e spazi precisi. Un’altra allestire il programma di un festival sottoposto a tutt’altri condizionamenti. Specie oggi che i festival sembrano voler accumulare più titoli possibile anziché selezionarli e organizzarli seguendo, appunto, una certa visione.
Ma qui pesa la velocità vertiginosa con cui è cambiata l’industria culturale. Ogni critica è anche figlia della sua epoca. E oggi, in tutto il mondo, ci sono sempre più film da festival, buoni, meno buoni, talvolta magnifici, ma spesso anche difficili, difficilissimi, a volte impenetrabili, mentre ci sono sempre meno grandi film in grado di parlare a un pubblico molto ampio e di offrire svariati livelli di lettura. Io però resto convinto che la forza, l’unicità, la potenza generativa del cinema siano tutt’uno con la sua impurità, con il suo essere arte e industria. E che nel suo Dna ci sia da qualche parte la vocazione a incontrare il più alto numero di sguardi possibile, a confrontarsi con la diversità culturale e sociale, insomma a vivere nell’incontro ma anche nello scontro e nell’incomprensione. (…)
Condizionamenti e scambi (non dichiarati)
I condizionamenti [della libertà di giudizio] sono sostanzialmente di due tipi. Ci sono quelli imposti dal luogo in cui ci si esprime e quelli che invece lo stesso critico tacitamente assegna al proprio lavoro. Entrambi possono essere subdoli. Entra in gioco lo stile comunicativo della testata o del sito, che possono influenzare non sempre per il meglio il lavoro del critico. Possono pesare, in modo opaco e inconfessato, i rapporti personali con artisti, produzioni, distribuzioni. O i rapporti istituzionali che quel giornale, quel sito, quella cattedra, intrattiene con enti esterni. Ci sono poi gli scambi non dichiarati, la tal produzione può concedere o negare interviste e anticipazioni, ad esempio.
Una volta i giornali soprattutto a grande tiratura sapevano che accordare spazio al cinema significava ricevere anche pubblicità. Ma il cinema non era certo la sola voce in materia. Viceversa siti che si occupano solo di cinema, e vivono solo o quasi solo di promozione cinematografica, preferiranno uno stile comunicativo più soft, più fintamente “oggettivo” e sostanzialmente imbrigliato nei modi. Tutto questo fa parte delle regole del gioco ma non c’è nessuna trasparenza, non ci sono regole chiare e condivise, spetta alla sensibilità del singolo adeguarsi.
Come gli inviati “embedded” in zona di guerra
Il mondo del cinema poi è piccolo, ci si conosce o almeno ci conosceva più o meno tutti, il che porta alcuni autori, o produttori, a considerare i critici come i giornalisti “embedded” nelle zone di guerra, enfatizzando e personalizzando ogni forma di dissenso. Se il grosso della categoria adotta forme caute e mediate, ogni dubbio, riserva o distinguo, esplicito e magari pronunciato in modo appassionato – perché senza una sincera passione è difficile esercitare questo mestiere – verrà vissuto come un violento attacco personale. (…)
I risultati dell’intreccio tra le forme di sostegno pubblico concesse al cinema e l’attuale assetto del mercato cinetelevisivo italiano sono sotto gli occhi di tutti. L’esigenza di alimentare un sistema produttivo sempre più vorace, l’ingresso di nuovi soggetti come le grandi piattaforme, l’insieme di norme che regolano l’accesso a finanziamenti statali o locali, sgravi fiscali etc., ha determinato un boom produttivo largamente svincolato dal rapporto con il mercato vero e proprio. Una volta gli incassi delle sale erano la voce determinante nel bilancio complessivo di un film.
Le regole del gioco
Oggi si producono ogni anno decine e decine di titoli che in sala non approdano proprio, o vi restano solo pochissimi giorni, il tempo di assolvere agli obblighi di legge. Questo significa che è sempre più facile produrre film aggirando il rischio di impresa. Non è una novità, una volta questo privilegio era accordato al cinema cosiddetto di ricerca, con tutte le deformazioni e gli abusi che una simile pratica comportava, per carità. Oggi però la tendenza si è invertita. E per riuscire a mandare in porto un film bisogna soddisfare requisiti che con la supposta qualità artistica hanno poco a che vedere.
Naturalmente il cinema ha sempre dovuto fare i conti con il quadro industriale e politico in cui si inseriva, epoca dopo epoca. Che fossero i Nickelodeon delle origini, le comiche di un solo rullo, i cortometraggi che hanno favorito la nascita della nouvelle vague in Francia o il documentario a programmazione obbligatoria grazie a cui si sono fatte le ossa un paio di generazioni di registi italiani del dopoguerra, o ancora che si avesse a che fare con lo “studio system”di Hollywood e la sua divisione in generi, sceneggiatori, registi e produttori conoscevano le regole del gioco. E dentro quelle regole trovavano il modo di fare arte, forzandole, interpretandole in modo personale, talvolta elaborando allusioni e metafore per gabbare la censura, ieri spagnola oggi iraniana. Gli esempi che si potrebbero fare sono innumerevoli.
La censura secondo Fellini
Per quanto riguarda il rapporto del nostro cinema con la censura, altro tema virtualmente inesauribile, resta molto istruttivo quanto disse Fellini nel 1958 (…):
“La censura è un modo di conoscere la propria debolezza e insufficienza intellettuale. La censura è sempre uno strumento politico, non è certo uno strumento intellettuale. Strumento intellettuale è la critica, che presuppone la conoscenza di ciò che si giudica e combatte. Criticare non è distruggere, ma ricondurre un oggetto al giusto posto nel processo degli oggetti. Censurare è distruggere, o almeno opporsi al processo del reale. La censura seppellisce nell’archivio i soggetti che vuole seppellire e impedisce loro indefinitamente di diventare realtà. Non importa che quattro o cinque intellettuali si leggano e si scaldino in cuore tali soggetti; essi non sono divenuti realtà per il pubblico, hanno mancato quindi alla vera realtà. C’è un atteggiamento italiano, presente in tutti noi, che la censura riflette, ed è il negarci all’autocritica, il credere nel privilegio di essere italiani e nella virtù del cielo azzurro. C’è, oltre all’orgoglio e all’euforia, all’eccessiva rassegnazione, il timore dell’autorità e del dogma, la sottomissione al canone e alla formula, che ci hanno fatto molto ossequienti. Tutto questo conduce dritti alla censura. Se non ci fosse la censura gli italiani se la farebbero da soli”.
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