Circa 1100 anni fa una giovanissima sceneggiatrice, senza alcun MBA (minimum base agreement) a protezione dei suoi diritti, inventa la narrazione seriale.
Si chiama Sharazad e lavora indefessamente dal tramonto all’alba per 1001 giorni. O meglio, notti. Sharazad non lo fa perché è un’artista – o un’artigiana dell’arte o un’artista dell’artigianato. Più prosaicamente – marxisticamente dico io, che sono una ragazza del millennio scorso – Sharazad lavora per soddisfare un bisogno primario ed essenziale: conservare la propria vita.
Al termine di quella che rimane ad oggi la più lunga writers room della storia – in altre parole al termine del suo lavoro – Sharazad viene retribuita.
Con la salvezza.
Con il riconoscimento del diritto d’autore sulle proprie opere – più di mille anni più tardi ricordiamo ancora il suo nome.
E con un equo compenso aggiuntivo calcolato in base al valore economico generato dal suo racconto. Ovvero la guarigione di un visir narcisista e sociopatico dal suo trauma da abbandono – chiunque di noi vada regolarmente da uno psicanalista da almeno un paio d’anni è in grado di valutare che si tratta di una vera fortuna.
L’equo compenso di Sharazad consiste nel diventare la regina di Persia.
Molti diranno che tutto questo non ha niente a che vedere con la rivendicazione di un contratto collettivo che regoli il compenso minimo, con il diritto a vedere riconosciuto il proprio lavoro in termini previdenziali – continuare a raccontare storie tutta la notte a 80 anni perché non si può andare in pensione diventa più complicato – con il diritto – come accade per una lattina di aranciata per una maglietta o per un mobile – che il nome di chi quella storia, quella lattina, quella maglietta, quel mobile li ha ideati non venga relegati all’oblio manco fossero le ceneri di un criminale di guerra condannato all’Aja – con il diritto, qualora l’opera creata generi un surplus di guadagno abnorme dovuto alla diffusione dell’opera stessa ai quattro angoli della terra a mezzo di diversi players, a partecipare a una parte di questa eccedenza.
Ma io sosterrò qui, invece, che non c’è nessuna differenza. Non di concetto, almeno.
Il lavoro è lavoro. Lo si fa anche e soprattutto perché è necessario per sopravvivere. Proprio come per Sharazade.
E’ lavoro quello che si fa in fabbrica. Lo è quello di chi consegna a domicilio. E’ lavoro quello svolto da medici, infermieri, barellieri e operatori sanitari, è lavoro quello degli insegnanti e dei collaboratori scolastici. E’ lavoro quello di chi è impiegato negli uffici pubblici o privati, nei tribunali, è lavoro quello di chi indossa una divisa o di chi va tutte le mattine a sollevare la serranda di un’attività commerciale. E’ lavoro quello di chi cucina nei ristoranti e quello di chi porta i piatti in tavola.
E’ lavoro quello di chi progetta un edificio e quello di chi lo realizza.
Ed è lavoro anche quello di chi inventa personaggi, mondi e storie che li collegano. Storie lunghe mille e una notte – oggi dai 300 gli 800 minuti di racconto, sfido qualsiasi regista a farlo “a braccio” basandosi solo su un “lasco canovaccio” – che entrano quotidianamente nelle vite di milioni di persone in tutto il mondo, emozionandoci, spaventandoci, divertendoci, ma soprattutto lasciandoci, quando scorrono i titoli di coda – che certuni vorrebbero togliere, con molti players quelli di testa sono già saltati, tanto che importa chi ha lavorato? E’ solo il capitale che conta! – con qualche domanda in più e a volte, con un po’ di fortuna, con un pezzo di noi stessi ritrovato che credevamo invece di aver perso per sempre.
Il fatto che facendolo, il lavoro dello scrittore per il cinema, per la televisione e per il teatro, esprimiamo noi stessi, quello che abbiamo imparato vivendo, la nostra maniera di vedere il mondo – cosa che peraltro non accade solo facendo i mestieri considerati tradizionalmente “artistici”, provate il caffè dello Statuto o la torta fragoline e panna di Regoli se non ci credete – non toglie comunque il fatto che è lavoro.
E il lavoro, si sa– “a’ tieni ‘na fatica?“ dicono a Napoli per chiederti se sei disoccupato o meno – oltre a concorrere al progresso materiale e spirituale della società, come dice l’articolo 4 della nostra Costituzione, o a consentirti l’espressione di te stesso in termini artigianali artistici – come desiderano invece sottolineare alcuni miei colleghi che rispetto ma con i quali garbatamente dissento – costa fatica.
Il lavoro impiega la maggior parte delle ore che trascorri da sveglio.
Il lavoro si usa per mantenere sé stessi, nel caso tu ce li abbia i tuoi figli, i tuoi genitori anziani che magari con la pensione minima non ce la fanno, a dare una mano a tua sorella o a tuo fratello o al tuo migliore amico che può essere che il lavoro l’hanno perso. Il lavoro ti chiede al tempo stesso di retribuire a tua volta persone che svolgano le mansioni che tu non riesci a svolgere, mentre tu sei, appunto, al lavoro.
Insisto su questo punto perché a mio avviso non esiste arte senza coscienza di sé e non esiste coscienza di sé che non passi attraverso l’accettazione e l’esplorazione dei propri limiti, certo, ma anche e soprattutto attraverso la consapevolezza dei propri diritti e alla facoltà di decidere – lo si è fatto molto e con grande coraggio in una stagione importantissima per la modernizzazione del nostro paese – che si è davvero pronti a tutto per vederli riconosciuti. Perché questo e nessun altro è il modo in cui tutti noi possiamo entrare a far parte della società. Questo e niente altro rende il nostro pensiero e il nostro sguardo distinto e inimitabile da nessuna ChatGPT.
E a chi lamenta la proliferazione delle scuole di scrittura che hanno vomitato sul mercato troppi giovani desiderosi di fare qualcosa che non è un lavoro – e dunque che non è di certo industria – rammento che a partire dall’anno 2020 nel nostro paese i lavoratori nello spettacolo hanno superato quelli impiegati nel settore edilizio e che serie come Gomorra – come tante altre, cito questa perché ne conosco i dati – ha dato continuativamente lavoro a 2700 persone. Rammento che l’oggetto del contendere che è alla base dello sciopero della WGA dimostra esattamente il contrario. Ma questo dato non è leggibile se non si capisce prima la portata del cambiamento storico appena avvenuto.
Negli ultimi cinque anni infatti, in seguito alla definitiva globalizzazione del mercato dell’audiovisivo, i players di contenuti hanno intuito la possibilità di un guadagno enorme, mai immaginato in precedenza, mai nemmeno pensato in altri settori industriali che non fossero il petrolio. Questo guadagno veniva – e viene – dalla trasmissione di contenuti audiovisivi. Soprattutto “scripted” (non reality, non programmi di intrattenimento, storie inventate da qualcuno prima di venire messe in scena). Soprattutto serie.
E’ stata questa intuizione a fare sì che multinazionali precedentemente operanti in altri settori – ad esempio Amazon che prima consegnava merci e Apple a cui ti rivolgevi se avevi bisogno di un computer – siano scese in campo come distributori di contenuti, realizzando così profitti enormi e al tempo stesso aumentando la propria forza anche nel settore di operatività originario. La classica “una via per due servizi”. Netflix, la prima multinazionale di questo tipo a scendere in campo – prima, se vivevi in America, Netflix ti faceva arrivare le videocassette a casa – è diventata in questa maniera e in pochissimo tempo una delle multinazionali più ricche del mondo.
L’ottanta per cento di questo risultato è stato ottenuto grazie a qualcosa di nuovo e di antico al tempo stesso. Le serie televisive. Che dal tempo di Sharazad o da quello più recente di Quando si ama hanno al tempo stesso acquisito la qualità e la forza sperimentale che eravamo abituati a pensare destinate unicamente alla sala e ai 100 minuti in cui vi si rimane seduti dentro al buio.
Oggi uno sceneggiatore nel mondo audiovisivo è al pari di un romanziere nel mondo dell’editoria e non una specie di Sancho Panza del regista che gli ciondola maldestramente intorno sperando di riuscire a intercettare le sue idee e di buttarle giù in un linguaggio comprensibile. Scrittori come Matthew Weiner (Mad Man), David Chase (I Soprano), JJ Abrams (Lost), Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy), solo per citarne alcuni, s. Di tutto questo stiamo parlando quando parliamo dello sciopero della Writers Guild of America (Wga).
Di storie che, come quella di Sharazad, diventano oro, salvando vite destinate altrimenti non forse alla decapitazione ma di certo esposte alla disoccupazione e al precariato, e generando un enorme profitto. Nessuno di noi vuole diventare Regina o Re di Persia. Almeno me lo auguro, soprattutto oggi sarebbe davvero un lavoraccio. Ma quello che chiediamo, unendoci, è che i nostri diritti di lavoratori vengano rispettati come in ogni altro settore industriale e che parte del plusvalore che creiamo – di certo insieme ad altri, ma che si fonda in gran parte sulle storie che scriviamo – ci venga riconosciuto.
Soggettista e sceneggiatrice, Maddalena Ravagli vince il premio Solinas nel 1999. Tra i suoi lavori le serie Gomorra, Zero Zero Zero, Django. Ha scritto la serie in produzione The Kollektive (Submarine e Allianz per Hulu), ispirata al gruppo di giornalisti investigativi Bellingcat, ed è al lavoro sulle serie La Strage di Erba (Cattleya) e Il caso Marta Russo (Wildside), adattamento dal romanzo La Malnata di Beatrice Salvioni.
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